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Giuseppe Modica e la sacralità dell'Atelier

ROMA-  E' la condivisione generosa di quel luogo sacro, contemplativo e solitario, di magica e segreta creazione dell'arte dal caos della realtà, che è il proprio studio per ogni artista il fulcro della mostra "Atelier" di Giuseppe Modica, ospitata a Roma negli spazi del Museo Hendrik Christian Andersen dal 23 giugno al 24 ottobre. A cura di Maria Giuseppina Di Monte e Gabriele Simongini, l'esposizione presenta 30 anni di carriera dell'artista, nato a Mazara del Vallo nel 1953 ma romano d'adozione, attraverso una serie di lavori, 37 in totale, realizzati dal 1990 fino al 2021. Il percorso si apre con "Omaggio ad Antonello", opera che celebra Antonello da Messina e in particolare il S. Girolamo nello studio, nella quale Modica ritrae se stesso mentre dipinge: subito quindi si sottolinea la volontà di aprire metaforicamente il proprio atelier a chi guarda, trovando nella rappresentazione di questo spazio così privato per ogni artista anche il legame con Andersen (nella casa-museo grande parte è occupata proprio dal laboratorio in cui operava lo scultore norvegese-americano). "Ho riflettuto molto sull'atelier, a partire dalla spazialità de Las Meninas, capolavoro di Velasquez, e omaggiando Antonello da Messina, pittore straordinario autore di San Girolamo nello studio, quadro che è una mia ossessione. L'atelier per me condensa l'aspetto meditativo e riflessivo: in pittura non c'è quell'attimo fatale come accade in fotografia con lo scatto", spiega all'ANSA Giuseppe Modica durante la presentazione della mostra, "Nella pittura c'è il tempo della meditazione, della addizione e sottrazione, in cui reinventi e rimediti il dato reale e di memoria. Per questo la pittura non morirà mai, perché è legata alla condizione umana". Nelle stanze un susseguirsi di lavori, dai colori sfumati e mediterranei, in cui tornano alcuni elementi ricorrenti: la geometria compositiva, caratteristica di ogni opera, che non è mai scevra di suggestioni malinconiche, di rimandi alle memorie e allo scorrere inesorabile del tempo, e poi la presenza quasi ossessiva degli specchi, in un continuo fluire tra il dentro e il fuori del quadro, con la pittura che rappresenta se stessa. Un movimento a cui lo spettatore partecipa con lo sguardo e che delimita uno spazio ibrido, posto in ogni quadro a metà tra la realtà e la metafisica. Diversi sono gli "oggetti-personaggio" che si ripetono nelle opere di Modica, dalla macchina fotografica alla squadra, dal cubo di Dürer alle enigmatiche presenze di Man Ray. Tra i temi trattati dall'artista, non potevano mancare quelli di più stretta e drammatica attualità, come la pandemia, con la solitudine e lo sconcerto che ha provocato, e i viaggi tra morte e speranza dei migranti in quel Mar Mediterraneo a cui Modica è legatissimo, e davanti al quale si affaccia il suo atelier di Mazara del Vallo. "Nei miei quadri c'è una sospensione dell'atmosfera. Ma non sono nostalgico perché credo che non si possa eludere la coscienza storica. C'è piuttosto un riferimento alla Metafisica di de Chirico, al suo insegnamento di saper vedere le cose al di fuori della banalità e coglierne il senso autentico", prosegue il pittore, "La macchina fotografica nei miei quadri è un appunto, una sorta di sciogli-memoria. Mentre lo specchio in sé è come la pittura, è una lastra che incarna il valore della superficie e anche quello della profondità reale, illusoria o di memoria. Mentre quando tratto temi come il coronavirus e l'immigrazione c'è sempre un orizzonte di luce sulla tela: la pittura serve a questo, ad attraversare la realtà greve e a superare la tragedia"

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