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Muse inquiete, la Biennale riflette sulle crisi

ROMA - Gli anni a cavallo delle due guerre con l'ascesa dei totalitarismi. Il cinema che piano piano viene risucchiato dalla politica che ne ha scoperto l'immenso potere di propaganda. E poi la crisi della Guerra Fredda, gli scontri del '68, i cambiamenti epocali degli anni '70, il post moderno, la globalizzazione. Solo parzialmente fermata dalla pandemia Covid, che ha fatto rinviare di un anno la Mostra di Architettura in programma per il 2020, la Biennale riscopre il suo ruolo di specchio della società e si racconta riflettendo sui momenti di crisi, i nodi della storia, gli eventi epocali dei quali è stata partecipe e testimone, in una mostra allestita dal 29 agosto all'8 dicembre al Padiglione Centrale dei Giardini.

Un progetto nato per celebrare i 125 anni dell'istituzione, sottolinea il presidente Roberto Cicutto, e che poi si è espanso e riempito di significati proprio in conseguenza del momento particolarissimo che stiamo vivendo. In qualche modo l'avvio di una Biennale per la prima volta davvero corale, come sottolinea dal suo studio di Boston il direttore della Mostra di Architettura Hashim Sarkis, perché alla sua realizzazione hanno lavorato insieme, seppure ognuno dal suo studio e dal suo angolo di mondo, tutti i curatori delle sei diverse sezioni, da Cecilia Alemani (Arte) ad Alberto Barbera (Cinema), da Marie Chouinard (Danza) a Ivan Fedele (Musica), Antonio Latella (Teatro) e appunto Hashim Sarkis (Architettura). Anche su questo, spiega Alemani, gioca il titolo scelto per questa esposizione "Muse inquiete. La Biennale di fronte alla storia", che certo allude a de Chirico con le sue Muse inquietanti presentate nell'edizione del 1948 , ma nello stesso tempo rimanda alle diverse forme di arte che qui giocano tutte insieme. Una riflessione corale e multimediale, che negli ambienti del Padiglione allestiti dai Forma Fantasma ("talenti italiani che vivono ad Amsterdam " li definisce Cecilia Alemani), complice l'archivio storico della Biennale (Asac), offrirà un tuffo nella storia e nelle storie, con foto d'epoca, film, filmati, documenti, e anche tanti inediti.

La Biennale come istituzione vede la luce nel 1895 all'inizio solo come esposizione di arte. Il percorso della mostra parte invece dagli Anni Trenta, quando arrivano il Cinema (che debutta nel 32) e il Teatro (dal 1934). Sono gli anni dei totalitarismi, racconta il direttore Cinema Barbera, eppure la politica arriverà ad occupare, anche pesantemente, gli spazi della Mostra solo dal 1938, quando la visita di Goebbels avrà reso chiaro a tutti quanto la settima arte sia fondamentale per supportare i regimi. Il cinema di fatto, spiega ancora Barbera, si dimostra l'occhio del Novecento, "un sismografo in grado di intercettare e alle volte di indurre le trasformazioni collettive". E un po' sarà così anche per l'arte, durante la Guerra Fredda ad esempio, quando nel '48 in una memorabile edizione arriverà in mostra per la prima volta il grande Picasso. E Peggy Guggenheim, che ancora non aveva aperto il suo personale museo sul Canal Grande e che di quella edizione fu la vera star, portò nel Padiglione della Grecia (allora dilaniata dalla guerra civile) allestito da Carlo Scarpa la sua abbacinante collezione d'arte con i Mondrian, i Rothko e gli straordinari Pollock che in Europa non si erano ancora visti. Dinamiche, quelle della Guerra Fredda, che si riflettono pure nella musica come racconta Ivan Fedele con le vicende di Sostakovic e di Prokofiev.

E ancora il '68 con la sua rivoluzione dei costumi e lo scontro generazionale che arriva in Mostra. Gli anni Settanta con le edizioni rinnovate dalla presidenza di Carlo Ripa di Meana, che a Venezia porta gente come Luca Ronconi e Vittorio Gregotti, l'architettura che da contenitore si fa contenuto e si mette in gioco con le altre arti, gli anni del Post Moderno di Portoghesi e Aldo Rossi, la globalizzazione con irrompe con l'ultimo decennio del cosiddetto secolo breve. L'idea, sintetizza Cicutto, è di un evento che non si esaurisce in una serie di mostre, ma rende invece il senso di "fluire continuo", un po' come è appunto quello della storia, segnato dai drammi e dalle rivoluzioni, dal progresso come dalle calamità. Tant'è. L'arte, sottolinea Cecilia Alemani, va avanti lo stesso. Le muse sono inquiete e attive. E questa mostra con i suoi occhi sul passato che si propongono come riflessione anche sul presente e sul futuro, accetta la sfida di dimostrarlo. Non a caso qualcuno, tra i sei curatori collegati dalle loro diverse città, cita le parole di Richter: "L'arte è la forma più alta della speranza".

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