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Etichette e anteprime per ritrovare file memorizzati nel Dna

Etichette e anteprime dei file aiutano a ritrovare più rapidamente i dati memorizzati nel Dna, proprio come accade per quelli salvati nei computer: lo dimostrano due studi realizzati negli Stati Uniti, pubblicati sulle riviste Nature Materials e Nature Communications rispettivamente dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) e dalla North Carolina State University.

“Abbiamo bisogno di nuove soluzioni per immagazzinare le enormi quantità di dati che il mondo sta accumulando”, spiega Mark Bathe, docente di bioingegneria al Mit. “Il Dna ha una densità che è mille volte superiore a quella di una memoria flash e ha pure un’altra proprietà di grande interesse, e cioè che una volta realizzato il polimero di Dna, non consuma energia. Si può scrivere sul Dna e archiviarlo per sempre”.

Nella molecola della vita sono già state immagazzinate intere pagine di testo e immagini: la difficoltà, però, sta nel riuscire a individuare ed estrarre solo i dati di interesse. La tecnica più utilizzata finora è quella della Pcr, la reazione a catena della polimerasi. In pratica si usa un’esca di Dna, chiamata primer, che va a legarsi all’etichetta di Dna su cui è scritto il nome del file: avvenuto il riconoscimento, entra in azione l’enzima polimerasi per produrre tantissime copie del filamento di Dna di interesse, che viene poi sequenziato e letto. Il problema è che spesso queste esche di Dna fanno confusione e finiscono per legarsi in maniera non specifica a filamenti diversi. Per superare questo problema, i ricercatori americani hanno sviluppato due strategie alternative.

I ricercatori della North Carolina State University hanno messo a punto una specifica nomenclatura dei file che permette di aprirli per intero o solo in parte (per ottenere una sorta di ‘anteprima’ dei dati contenuti) semplicemente modificando alcuni parametri della Pcr, come la temperatura a cui avviene la reazione o la concentrazione del Dna o dei reagenti nel campione analizzato. L’efficienza di questa strategia è stata dimostrata salvando quattro grandi immagini in formato Jpeg nel Dna per poi recuperarne le anteprime o i file interi ad alta risoluzione. “Sebbene abbiamo archiviato solo immagini, questa tecnologia è compatibile anche con altri tipi di file”, sottolinea il ricercatore Kevin Volkel.

Una diversa strategia è stata sviluppata dai ricercatori del Mit, che hanno provato a incapsulare ogni file in una particella di silice grande appena sei millesimi di millimetro ed etichettata con una breve sequenza di Dna, una sorta di codice a barre che rivela il contenuto del file e che può essere riconosciuto da un primer fluorescente o magnetizzato per facilitarne la separazione. Questa tecnica permette di recuperare i file di interesse usando perfino gli operatori booleani come nei motori di ricerca sul web: cercando ‘presidente AND 18esimo secolo’, per esempio, si ottiene come risultato ‘George Washington’.

La strategia è stata sperimentata per ricercare dati in un archivio di 20 immagini salvate in sequenze di Dna lunghe 3.000 nucleotidi, l’equivalente di circa 100 byte (anche se le capsule possono contenere file fino a un gigabyte). “Al momento – spiega il ricercatore James Banal - abbiamo una velocità di ricerca di 1 kilobyte al secondo”, un risultato che risente ancora della piccola quantità di dati che può essere inserita in ciascuna capsula, considerato che scrivere anche solo 100 megabyte sul Dna può avere costi proibitivi.

 

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