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Venticinque anni senza Ayrton Senna, il pilota mito: le foto di un uomo diventato divinità

Scrivere di Senna in queste ore è un po’ come pretendere di piazzare il carro davanti ai buoi di chi ama i motori, la Formula Uno, ma non solo. Se c’è un pilota che ha saputo prevaricare qualsiasi confine tra il suo sport e il resto del mondo, quello è stato Ayrton Senna. Già mito prima di morire, venticinque anni fa oggi, il 1 maggio 1994, ad Imola. Se lo portò via un incidente al Tamburello, alle 14.17. Si ruppe lo sterzo della sua Williams, che andò dritta al muro. Si sarebbe anche salvato dall’impatto, ma un pezzo di sospensione si infilò dentro un pezzo di plastica del casco e gli fu fatale.

La sua scomparsa è stata di quelle epocali, che non si possono dimenticare: chi più, chi meno, tutti ricordano dov’erano quel giorno, cosa facevano. I giornali uscirono in edicola, il 2 maggio: solitamente il 1 maggio, festa del Lavoro, le redazioni sono chiuse, quel giorno fecero un’eccezione.

Normale, dopotutto. Se c’è qualcuno nella storia degli sport a motori che ha saputo annusare, sbandierare, accarezzare e insomma scovare sul serio la (e le) società del nostro tempo, al di fuori dei circuiti, dell’odore dell’olio da motori e delle gomme, quello è stato lui. Con i guantoni e con gli occhi lo aveva fatto prima di lui Mohammed Alì, che ha stanato presto i nostri stomaci, le periferie delle emozioni e degli animi, in una lucida ed ebbra autopsia dell’essere e della metamorfosi di quegli anni. Lo ha fatto anche, in un modo forse meno affascinante ma certamente più incendiario, Diego Armando Maradona: cifra diversa, qualità meno lucida, ma prorompente nella sua forza illuminante, che ha dato una voce agli invisibili, enucleato le nostre minime e siderali meccaniche di senso, genio, affetto e nevrosi. Tutto questo, dando calci ad un pallone.

Senna ha fatto tutto questo e anche di più: un pilota fondamentalmente anarchico dallo sguardo perennemente triste e pensieroso divenuto da uomo a pilota, da pilota a leggenda, da leggenda a divinità.

Chi ha vissuto Ayrton Senna Da Silvia, chi più chi meno, sa il perché se ne parli ancora dopo 25 anni dopo. Non potrebbe essere altrimenti, sembra quasi naturale farlo. Il brasiliano era l’incarnazione vivente di quello che ognuno di noi vorrebbe essere almeno un giorno, nella vita, nel bene e nel male. Un genio in quello che faceva, bello, adorato (e anche odiato) dalle donne e dagli uomini, un pifferaio magico, messianico, affascinante quando parlava al pubblico, ai giornalisti, una sorta di Apollo dentro e fuori dalla vettura.

Ma anche umano, perfino troppo, quando c’era da sporcarsi le mani: rancoroso, cattivo, non ci ha pensato due volte a rischiare la propria vita a Suzuka, nel 1990, per rendere pan per focaccia a Prost, buttandolo fuori a 300 orari alla prima curva del gran premio del Giappone, proprio come aveva fatto il francese con lui dodici mesi prima. E non c’entrava il campionato, il mondiale, la gloria, i soldi. Semplicemente, come scrive Leo Turrini nel suo libro ricordo, uscito poco tempo fa, il Dio di Ayrton, quello che lui amava e venerava, era quello dell’antico Testamento. Occhio per occhio, dente per dente.

Ci sono stati piloti grandiosi, eccezionali, ma gli è sempre mancato qualcosa, per ergersi al livello di divinità assunta dal brasiliano non solo dopo la sua morte, ma anche prima. Schumacher, ad esempio, in pista probabilmente è stato tanto grande quanto Senna, ha anche vinto (molto) di più, ma la sua grandezza finiva lì. Anche Prost, la nemesi di Senna, è ricordato più per lo scontro epico con il brasiliano che per la persona o per il grandioso pilota che è stato il transalpino. Forse Gilles Villeneuve, che ha vinto quasi niente di formula uno, ha assunto negli anni dei contorni da leggenda per quello che ha saputo rappresentare anche fuori dai circuiti, ma Gilles era troppo “folle” e istintivo, per rappresentare al meglio una generazione, la sua, e anche quelle future, in un certo senso.

Senna era uno sciamano. Era grande fuori quanto lo era dentro la sua macchina. Lui lo sapeva, e ci giocava sopra questo. Era un uomo anche religioso, non in maniera canonica, ma mistica: immaginava di vedere Dio sopra il suo casco, spiegava che era andato a sbattere perché ad un certo punto, con un minuto e mezzo di vantaggio sul secondo, non si sentiva più lui, non capiva come e perché stava guidando.

Senna era uno che dopo la fine della stagione fuggiva in Brasile per tre mesi e mezzo (lo aveva scritto nel contratto) per stare con amici e parenti nella sua tenuta ad Angra Do Reis, la sua tana segreta, dove staccava con il resto del mondo. Poi, a fine febbraio, tornava e provava la sua nuova macchina, giusto 2 o 3 volte, il tempo per capire, mentre tutti i suoi colleghi avevano già macinato migliaia e migliaia di chilometri nel frattempo. Lui, non ne aveva bisogno.

Non che Senna non fosse un perfezionista: passava ore e ore in pista, con i meccanici, ma la sua vera unicità era la guida, la purezza dello stile, la sensibilità. Era capace di passare per 70 volte nello stesso identico punto durante un giro veloce, specialità nella quale era ed è assolutamente inarrivabile. Come lo era sulla pioggia: Donington ’93, con 6 sorpassi al primo giro sotto il diluvio, è la gemma più stupefacente della storia dei Gran Premio. Il resto è curriculum: tre mondiali vinti, 41 vittorie, 65 pole position in 161 corse per lui.

Era anche un generoso, Senna: donava milioni e milioni di dollari in beneficenza. Lui, ricco di famiglia, faceva di tutto per gli altri, ma questo si seppe solo dopo che morì, e solo grazie all’adorata sorella Viviane, che con mamma Neide porta avanti la fondazione Senna, che costruisce case e ospedali per i tanti (troppi) poveri di quella terra splendida e sfortunata che è il Brasile. Ayrton vive ancora non solo nel loro sguardo (si somigliano tantissimo) ma anche nelle loro azioni.

A proposito di Prost e del suo rapporto con il divino. Senna pochi minuti prima di morire, a Imola, con il suo eterno rivale ritirato e in una cabina di commento in tv, disse durante un giro di ricognizione del circuito: “Ciao Alain, mi manchi”. Parole che qualche ora dopo suonarono agghiaccianti.

C’è un nuovo Senna ora, in Formula 1? Hamilton lo ricorda per molte cose, e non è un caso che Lewis sia cresciuto, quasi ossessionato, dal mito di Ayrton. Ma l'inglese è pur sempre un figlio del suo tempo, è una star dei social, tatuatissimo, molto attento all'immagine.

In generale, però, questa non è una Formula Uno che a Senna sarebbe piaciuta.  Sarebbe piaciuto però a tutti vedere Ayrton, coi capelli lunghi, magari bianchi (oggi avrebbe 59 anni) e lo sguardo ancora più insolente del solito, dare dei giudizi su questo e quello, sentire le sue parole, anche se forse, probabilmente, dopo il suo ritiro sarebbe semplicemente sparito. A volte lo immaginiamo ancora vivo e sperduto, magari nella sua isola, in Brasile, dove lo si può ancora immaginare giocare con i suoi aeroplani telecomandati, o con la sua tuta da sci nautico tra le onde di quel paradiso.

Invece no. Da 25 anni Ayrton Senna da Silva è la tomba numero 11 al cimitero di Morumbi: «Nulla mi può separare dall’amore di Dio», si legge. Un amore che continua anche qui, anche tra chi non lo ha conosciuto o tifato allora, perché quella maledetta domenica che ha portato via per sempre il pilota di tutti, lo ha reso idolo eterno.

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