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John Pepper, quando la fotografia è la sintesi di tutte le altre arti

ROMA. I suoi viaggi fotografici non sono solo esplorazione ma anche riscoperta di sé attraverso una percezione del mondo che è anche introspezione, consapevolezza della realtà e desiderio di trascenderla.

Nasce tutto da qui: dalla voglia di sperimentare, mettersi in gioco, inseguire quello che vuoi, condividere ciò che ami, mentre cresce la smania di conoscere, e conoscersi, meglio. Questa passione ha un nome, fotografia.

Un mezzo con il quale raccontare se stesso attraverso gli altri: la caverna magica, la camera oscura, dove la luce si rivela nel buio più assoluto, attira John Pepper.

E l’universo che lui scorge non è mai ordinario anzi, nel comporre un anomalo e suggestivo diario di viaggio, mette in campo genialità, un incredibile colpo d’occhio e una rara capacità di oltrepassare la realtà. Pepper è come qualcuno che parte, setaccia e poi, alla fine, scopre. Pensando all’opera di questo fotografo italo-americano viene subito alla mente una fotografia fatta di bianchi e neri, contrastati ed evocativi, sempre imbevuti di una forte carica emotiva; fotografie meravigliosamente efficaci, dove luce e ombre sono complici. Vicoli bui, banconi di bar di secondo ordine, baci rubati alla stazione, porti e banchine: è un mondo spiato quello immortalato nelle fotografie di John R. Pepper.

Inizi da street photographer, per sempre analogico, nelle sue immagini restituisce un’umanità evanescente, attimi di vita rubati e trasposti su carta, quasi come a salvarli dall’evaporazione.

Ed è proprio Evaporations il titolo della personale del fotografo, per anni storico assistente di Ugo Mulas, in corso fino al 18 gennaio a Roma, a Palazzo Cipolla, sede del Museo della Fondazione Terzo Pilastro–Italia e Mediterraneo. Oltre 50 scatti, in grande formato e dalla perfetta qualità di stampa, che parlano di viaggio, di solitudine, spesso slegate da uno specifico contesto sociale o temporale.

Scatti con cui l’artista tra il 2012 e il 2013 ha immortalato ombre e movimenti di uomini tra Europa e Stati Uniti, da Coney Island a Napoli, dai paesaggi finlandesi a Barcellona, alle devastazioni provocate dall’uragano Sandy alle proteste del movimento «Occupy Wall Street» a New York. In tutte c’è qualcosa di evanescente, qualcosa che evapora e che cambia stato nel ciclico divenire della vita: il ghiaccio, il mare, il cielo. Insomma, l’acqua, simbolo di tutto, presente in ogni religione, è l’esatto contrario del cemento, pronto a inghiottire l’uomo a ogni suo passo, è l’elemento primigenio, catartico, purificatore. È specchio, doppio. Ma c’è pure la solitudine delle persone, il mistero della psiche umana.

«La lentezza è ciò che caratterizza il mio lavoro - spiega Pepper - quella che va dall’occhio al dito che preme il pulsante e ricarica. Per questo continuo a usare macchine analogiche: con la fotografia digitale la foto comincia al computer».

Sembra cigolare il ventilatore a soffitto, mosso dal vento che soffia e crea correnti che sferzano una stanca «stars and stripes»: una scena post apocalittica, in cui l’umanità ha lasciato la sua impronta indelebile.

Prima di evaporare.

È una delle fotografie che compongono il progetto di Pepper, che non è solo un fotografo - anche se la fotografia è un’asse centrale del suo mondo professionale - ma anche un regista teatrale, di cinema e tv, pittore e attore. L’estro artistico è parte del suo bagaglio cromosomico, la sua è una famiglia di artisti e intellettuali; l’altra parte, invece, è composta da incontri, incroci, esperienze di vita, sollecitazioni.

È figlio del giornalista Curtis Bill Pepper, per oltre mezzo secolo capo dell’ufficio romano della rivista Newsweek –John infatti è cresciuto a Roma - e fin da piccolissimo sta vicino alla madre Beverly, artista eccentrica, famosa per le sue opere monumentali, fino a «imbracciare» tavolozza e pennello; la sorella Jorie Graham, invece, è una poetessa di fama internazionale, premio Pulitzer per la poesia nel 1996.

«Quando si vive in una famiglia così – ammette - impari presto a esprimerti attraverso la creazione». Le sue foto sembrano senza tempo e senza luogo, non è un caso se non ci sono mai date e titoli a corredo dei suoi scatti: è compito di chi le guarda collocarle, dargli una storia, un contesto, associargli un’emozione.

Attimi colti al volo: costellazioni di persone e luoghi, giovani che giocano sulla spiaggia, pattinatori, pontili e passeggiate lungomare, cieli carichi di nubi, cupi profili di città:

«Quello che è bello nella vita è la debolezza dell’essere umano, l’essere umano che cade, si rialza e continua».

John cristallizza momenti magici, ferma sul negativo un istante che gli suscita commozione. Come quello realizzato sulla costa vicino a San Pietroburgo, in un giorno di ferie, mentre la gente festeggia e beve vodka a litri. Nelle mani di Pepper la macchina fotografica diventa come un pennello che dipinge su tela le percezioni più profonde dello stato d’animo, trasformandole in un bianco e nero quasi liquefatto e in forme impalpabili. Con uno scopo: regalare al fruitore sensazioni ed emozioni profonde, rievocando i sogni dell’anima, con uno stile e una tecnica che riescono a mettere in evidenza ciò che gli altri non vedono.

Dentro ogni suo scatto ritrovi il teatro, la regia, la pittura, la recitazione e anche la scultura, uno zaino stracolmo che conduce sempre con sé, in ogni spostamento, in ogni nuova avventura.

Perché a lui, in teatro, al cinema o in una foto piace da matti raccontare gli esseri umani, come frame di un’unica pellicola, seppur ritratti in luoghi differenti e geograficamente distanti. Come dire: la bellezza si può mostrare attraverso fragilità, incertezze, debolezze, dubbi, solitudine e ogni altra crepa possibile.

Spiega la curatrice Roberta Semeraro: «Per indicare il percorso di un artista, le connessioni, il prima e il dopo, sono importanti. Ovviamente anche John Pepper ha i suoi riferimenti, a partire dalle prime esperienze di fotografo di strada. Ma oggi ha svoltato, adesso il suo lavoro è quello di estrapolare un attimo della realtà rendendolo assoluto, ritrova se stesso negli altri, vede la fotografia con una visione universale, cosmica. Nel ciclo Evaporations acqua e cielo sono elementi fondamentali, indicativi della tensione del fotografo verso l’assoluto che spesso non ha bisogno della figura umana. Nelle foto c’è il presente che diventa passato, che evapora e, se in altri linguaggi il soggetto non è riscontrabile nella realtà - il soggetto del ritratto di un pittore non è detto che sia reale - nella fotografia esso esiste, è esistito almeno nel momento in cui è stato fotografato. Indubbiamente Pepper ha virato verso l’arte, si è sganciato dal riferimento reale, ne ha fatto un linguaggio artistico, in lui c’è una ricerca di assoluto che è proprio delle opere d’arte. E un ulteriore passo in questa direzione sarà il suo nuovo progetto fotografico, che sfocerà, nel 2017, in un libro, intitolato Deserts/Droughts, in cui esplora i deserti e i loro effetti nel tempo, nella storia e sulla gente. In queste opere si domanda se la presenza dell’uomo abbia cambiato il paesaggio o se la terra sia rimasta pura e incontaminata com’era prima dell’arrivo dell’essere umano».

E alla fine, se qualsiasi sputo di terra ha un’anima, lui gliel’avrà letta.

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