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Joan Mirò, quando i colori dell’inconscio si posano sulle tele - Foto

MILANO. Quando i colori dell'inconscio si depositano sugli oggetti divenendo suggestione, ecco Mirò.

Percorso psicanalitico, liberatorio, quello proposto dal Museo delle Culture di Milano, il Mudec, che fino all'11 settembre ospita la mostra «Joan Miró. La forza della materia».

Oltre cento opere del maestro spagnolo-«catalano», avrebbe subito corretto lui - sono presentate in quattro sezioni, concepite dalla «Fundaciò Joan Miró di Barcellona» sotto la direzione di Rosa Maria Malet e con la collaborazione di Francesco Poli.

«La gestazione di un nuovo linguaggio» è la prima tappa del viaggio alla scoperta di un artista della sperimentazione che già negli anni Venti, influenzato dalla poesia «non sense», sentì il bisogno di andare oltre le tecniche espressive tradizionali.

Anzi, per usare una sua celebre affermazione, avvertì l'impulso di «assassinare la pittura». Non a caso, secondo e terzo segmento della mostra s'intitolano «La libertà del gesto pittorico e la materialità dell'oggetto», l'una, «Antipittura», l'altra. Alla fine degli anni Sessanta, peraltro, Mirò «sconfina» nella scultura in bronzo e, intanto, devasta letteralmente la sua «casa madre» bruciando e perforando le tele.

Come quelle presentate nel 1974 in occasione della celebre retrospettiva al Grand Palais di Parigi.

Così anticonvenzionale, Joan Mirò suo malgrado ha fatto scuola.

Ha scritto lo storico dell'arte Flavio Caroli: «La visione del catalano, la diaspora di spazi abitata da ineffabili creature, condizionerà gran parte dell'arte del Novecento. Gli saranno debitori tutti, da Pollock a Matta a Gorky, a Keith Haring e Jean-Michel Basquiat».

Almeno da questo punto di vista, dunque, si può parlare di un autore «classico» anche se - avverte la direttrice della «Fundaciò», Rosa Maria Malet - il «classicismo di Miró non corrisponde ad alcun canone né al concetto tradizionale di bellezza. La sua opera è il risultato di un sapiente equilibrio tra i diversi fattori che determinarono il suo personale modo di esprimersi».

Tra questi «fattori», l'appassionata e orgogliosa rivendicazione delle proprie radici popolari, culturali, che Malet sintetizza così:

«Se prescindiamo dalla tradizione, potrebbe essere difficile comprendere il valore universale dei temi più spesso ricorrenti nella sua opera: la donna, le stelle, gli uccelli. Miró rappresenta un ulteriore passo avanti nell’evoluzione artistica di un Paese che conserva resti di dipinti paleolitici, che custodisce l’importante eredità degli affreschi romanici medievali delle chiese dei Pirenei e alla cui architettura recente ha contribuito Antoni Gaudí. Questa continuità con la tradizione seguì un percorso unico, senza precedenti, condizionato dal desiderio di Miró di giungere con la sua opera fin dove arriva la poesia; non in senso letterale, ma per le emozioni che suscita».

Al Mudec di Milano, l'occasione di una scoperta. Meglio, di una riscoperta.

Perché non basta un colpo d'occhio per vedere e capire la produzione di alcuni artisti.

Questa va metabolizzata nel tempo, ma senza perdersi nei soliti e spesso superficiali tentativi di decodifica, nella ricerca di un qualche senso.

Lo ha sottolineato bene, nella sua «Storia dell'Arte Moderna», Giulio Carlo Argan:

«La pittura di Mirò è caratterizzata dall'assoluta mancanza di censure. Evita perfino di attribuire alle immagini significati simbolici perché le giustificherebbero e la giustificazione è ancora una censura».

E ancora: «Anche Mirò come Léger (pittore francese morto nel 1955, ndr) è un pianeta nel sistema solare di Picasso. Ma Mirò isola il momento ironico della
poetica del maestro. Dichiara candidamente la nullità, l'insignificanza delle proprie immagini».

Per Argan, «puramente ludica» l'opera di Joan Mirò. Eppure, nasceva da un tormento che il nipote Joan Punyet Miró ricorda nel saggio scritto per il catalogo dell'esposizione milanese, usando le stesse parole del nonno:

«Quando un quadro non mi soddisfa, sento un malessere fisico, come se fossi malato, come se il mio cuore funzionasse male, come se non potessi respirare, come se stessi affogando. […] In un primo momento sento questo malessere che ho descritto. Però, siccome sono molto ostinato in questo genere di cose, combatto. È un combattimento tra me e quello che faccio, tra me e il quadro, tra me e il mio malessere. Questa lotta mi eccita e mi appassiona. Lavoro finché il malessere non cessa».

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