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In Australia i primi trapianti di cuori fermi da 20 minuti

«Tutto questo è stato possibile grazie allo sviluppo della soluzione protettiva e di una tecnologia che permette di preservare il cuore, di risuscitarlo e di monitorare la sua funzione».

ROMA. Potrebbe aumentare del 30% il numero di cuori disponibili per un trapianto, alleviando la pressione sui pazienti costretti ad attendere anni per un organo, la tecnica messa a punto dai ricercatori dell'ospedale St. Vincent's di Sydney. I chirurghi australiani hanno trapiantato con successo, per la prima volta al mondo, cuori morti, che avevano cessato di battere per 20 minuti.

I trapianti sono stati eseguiti negli ultimi due mesi su tre pazienti vittime di arresto cardiaco. Due di questi, un uomo e una donna, si sono già ripresi bene e il terzo è ancora in terapia intensiva. MacDonald, affiancato dal chirurgo cardiotoracico Kumud Dhital che ha eseguito gli interventi, ha spiegato in una conferenza stampa che i cuori donati erano alloggiati in una console portatile e sommersi in una soluzione protettiva sviluppata da specialisti dell'ospedale stesso. Gli organi venivano poi connessi a un circuito sterile che li faceva battere e li teneva caldi.

«Tutto questo è stato possibile grazie allo sviluppo della soluzione protettiva e di una tecnologia che permette di preservare il cuore, di risuscitarlo e di monitorare la sua funzione». La squadra medica lavorava a questo progetto da 20 anni e intensivamente negli ultimi quattro, ha riferito MacDonald. «Abbiamo ricercato per quanto a lungo il cuore può sostenere un periodo in cui cessa di battere. Abbiamo poi sviluppato la tecnica per riattivarlo nella console. Per fare questo abbiamo rimosso sangue dal donatore per caricare il congegno e poi abbiamo estratto il cuore, l'abbiamo collegato al congegno, l'abbiamo riscaldato e ha cominciato a battere».

La tecnica potrà essere usata in tutto il mondo e offre anche il vantaggio di far sì che il cuore sia in condizioni ottimali per il trapianto per più delle quattro ore di quelli prelevati in condizioni normali. Questo permetterebbe di usarlo anche per pazienti molto lontani da dove viene effettuato l'espianto.

Questo tipo di tecnica è già usato, anche in Italia, per altri organi, come polmoni e reni, spiega Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro Nazionale Trapianti. «C'è un grande lavoro, anche in Italia, su come mantenere in vita organi come cuore e polmoni dopo la morte del donatore, e alcune esperienze ci sono già anche qui da noi - osserva - tutto quello che può aumentare la disponibilità e la qualità degli organi è interessante, ma va valutato con attenzione».

Secondo l'esperto per questi interventi ci potrebbero essere problemi etici. «È importante sapere come è stata accertata la morte dei donatori - spiega Costa -. Se si accerta con criteri neurologici non ci sono problemi, ma se ci si basa invece su criteri cardiocircolatori bisogna verificare con molta attenzione il protocollo seguito, altrimenti si rischia, come già successo negli Usa, che non si siano seguite tutte le procedure prima della dichiarazione di morte».

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