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"Insufficienza di prove", assolti dall'accusa di doping 95 atleti russi

MOSCA. «Insufficienza di prove": con questa motivazione l’agenzia mondiale antidoping (Wada) ha concordato di assolvere 95 dei primi 96 casi di atleti riesaminati nell’indagine sul doping di stato russo.  Uno scandalo che fu sportivo ma anche politico, con colpi bassi e toni da guerra fredda tra Washington e Mosca. E' il Nyt a rivelare le prime conclusioni della Wada, destinate a suscitare nuove polemiche e nuovi interrogativi, in particolare se sia prevalsa l’efficacia del sistema russo nel distruggere le prove o l’approccio soft degli investigatori. Senza dimenticare i possibili conflitti di interesse delle federazioni nazionali - cui sono demandati in prima istanza il controllo dei propri atleti e l’emissioni delle sanzioni - e dello stesso capo della Wada, Craig Reedie, che è anche membro del Cio, quindi interessato a promuovere il marchio olimpico mentre persegue le violazioni che lo danneggiano.

«Le prove disponibili sono insufficienti a sostenere l’accusa della violazione delle regole antidoping contro questi 95 atleti», scrive il direttore generale della Wada Olivier Niggli, in un rapporto interno che non identifica nessuno degli atleti in questione. «Il sistema era molto ben organizzato ma, anni dopo i fatti, le prove rimaste sono spesso molto limitate», ha ammesso Nigli al Nyt. «Dobbiamo accettare il fatto che l'obiettivo di Richard McLaren - il professore canadese che ha indagato sullo scandalo, ndr - era dimostrare un sistema, non le violazioni individuali». Anche lo stesso McLaren, che ha speso gli ultimi due anni ad analizzare gli schemi del sistema russo identificando circa mille atleti coinvolti, ha riconosciuto che molti casi saranno difficili da perseguire per la carenza di cooperazione da parte di Mosca nel fornire i dati di laboratorio e la sua prassi di distruggere i campioni di urine contaminate utili per l’incriminazione.

Ma i dirigenti della Wada incaricati di costruire le accuse contro i primi 95 atleti russi non sembrano aver seguito tutte le piste. Nessuno, tranne un investigatore olimpico, ha chiesto ad esempio di sentire la 'gola profondà dell’inchiesta, il dottore Grigory Rodchenkov, l’ex direttore del laboratorio antidoping russo, che ora vive sotto protezione in Usa. Dalle indagini era emersa l’esistenza in Russia sin dal 2011 di un doping di stato, controllato e diretto dal ministero dello sport con l’aiuto dei servizi segreti, riguardante 30 sport estivi, invernali e paraolimpici, con il coinvolgimento di cinque medagliati a Londra 2012 e quattro a Sochi 2014. L’atletica russa fu poi esclusa dalle Olimpiadi di Rio.  Mosca ha sempre respinto ogni addebito ed evocato un complotto americano, al quale hacker presumibilmente russi hanno risposto smascherando i campioni Usa che fanno uso di sostanze proibite ma protetti da appositi certificati medici. Ora il Cremlino assapora questa ulteriore, parziale vendetta.

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