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La lezione di Cataldo Naro, l'arcivescovo che sognava una Chiesa nuova

Quindici anni fa moriva il prelato di Monreale, lo scrittore e saggista sul Giornale di Sicilia ricorda le sue posizioni scomode: dal rapporto con il potere politico alla mafia vista come "struttura di peccato"

san cataldo 29 gennaio 2003 - padre cataldo naro - arcivescovo di monreale

Sono trascorsi quindici anni da quel tragico 29 settembre 2006 giorno in cui, inaspettatamente, concluse la corsa terrena monsignor Cataldo Naro, arcivescovo di Monreale. Naro è stato un attento studioso della storia della Chiesa e, soprattutto, del cattolicesimo sociale siciliano. Era nato a San Cataldo – vivace comunità in cui il cattolicesimo democratico aveva espresso eccellenze basta pensare al presidente Giuseppe Alessi – e, nel suo pur breve percorso di vita, aveva assunto il ruolo di punto di riferimento certo per una Chiesa che, nel solco del Concilio Vaticano II, riaffermava la sua presenza profetica in una terra particolarmente difficile e densa di insidie come la nostra.

Da sacerdote, da preside della facoltà teologica di Sicilia, da vescovo aveva affrontato, a viso aperto, senza cioè lasciarsi condizionare dalle incrostazioni tradizionali o dalle paure per le eventuali conseguenze che gliene potevano derivare, le tante criticità che presentava la Chiesa siciliana a partire da quel non sempre chiaro rapporto con il potere politico. Era un uomo dotato di notevole carisma ma anche carico di entusiasmo che induceva fiducia, confortato da una profonda fede che lo sosteneva in quella che, richiamando l’apostolo Paolo della lettera a Timoteo, si poteva definire la sua «buona battaglia«.

Mons. Naro aspirava, infatti, ad un Chiesa libera dai condizionamenti e dai compromessi che annunciava e praticava la parola evangelica. Una Chiesa che, dunque, usciva dai recinti formali nella quale si era troppo spesso chiusa ed andava incontro alla gente sempre alla ricerca della pecorella smarrita. La Chiesa di monsignor Naro era, ad esempio, la Chiesa di don Pino Puglisi, il parroco che affrontava, col sorriso e la semplicità dell’uomo buono, il confronto con la malapianta mafiosa che dominava il quartiere di Brancaccio.
Non è un caso che da uomo di chiesa potesse concedere perfino pensieri e parole eretici rispetto al comune pensiero come questo che rubo dal blog di Salvatore Falzone: «I nostri eroi – scriveva il vescovo - non sono i capicosca della mafia o i pericolosi capibanda di fuorilegge che tanta sofferenza e tanto odio hanno seminato in questa terra. I nostri eroi sono le figure eminenti di un cristianesimo semplice e robusto, fedele e coraggioso, cioè i santi e le sante che lo Spirito Santo ha continuato a suscitare nella Chiesa monrealese lungo i secoli, ma con una sorta di accelerazione ed anche di infoltimento proprio nel Novecento». Proprio Monreale, antica diocesi voluta dal normanno Guglielmo II, costituì il palcoscenico sul quale si trovò a sperimentare questa visione nuova, cioè di rendere autonoma la Chiesa rispetto ai poteri forti locali. E questo gli fece assumere il ruolo del vescovo scomodo, un vescovo che, sulle orme di Giovanni Paolo II, condanna senza mezzi termini la mafia come «struttura di peccato».

Non meravigliano, dunque, i risentimenti e financo la violenza fisica nei suoi confronti, mi riferisco all’aggressione che nel giugno del 2005 monsignor Naro subì a Cinisi, non meravigliano le minacciose lettere anonime che disegnavano intrighi maleodoranti di mafia. A Naro veniva, infatti, rimproverato di non essersi conformato all’aurea regola del «quieta non movere et mota quietare» e cioè di voler cambiare tutto senza tenere conto - scriverebbe Sciascia - del «contesto», un contesto non sempre limpido che, è opportuno precisarlo, il suo predecessore, l’arcivescovo Salvatore Cassisa, aveva accettato senza alcun imbarazzo. D’altra parte, bisogna ricordare che lo stesso Cassisa aveva avviato una sorta di guerra personale contro il giovane arcivescovo, ne era stata prova evidente il rifiuto di abbandonare l’appartamento in curia di spettanza del vescovo protempore.

Ma intanto la figura di Naro cresceva, molti fedeli lo vedevano come speranza della Chiesa siciliana, destinato ad occupare la cattedra del compianto cardinale Salvatore Pappalardo nella cui linea di continuità si iscriveva il suo magistero. Un sogno che, purtroppo, veniva spezzato dalla morte sopravvenuta per arresto cardiaco; il suo cuore affaticato per lo stress, determinato dalle vicende drammatiche che lo avevano pesantemente segnato nei circa quattro anni in cui aveva occupato la cattedra monrealese, aveva improvvisamente ceduto. La morte fermò dunque la sua corsa, ma ci rimane «la lezione del suo magistero pastorale… [la cui] recezione – lamenta il fratello teologo don Massimo Naro – in ambito ecclesiale sembra quasi del tutto disattesa».

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