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Nel rapporto medico-paziente parole chiare tra verità e speranza

Il delicato tema del dialogo tra sanitari e infermi nel caso di malattie incurabili. Evitare il silenzio, prediligere la sobrietà e la semplicità

Lo scrittore Ferdinando Camon - con un articolo su un grande quotidiano nazionale - ha posto la domanda se è giusto che il medico curante dica la verità al paziente inguaribile in termini netti, inesorabili e senza scampo.
La particolare funzione che Camon attribuisce alla scrittura è la «delazione», nel senso di denuncia o atto d'accusa. In questo caso Camon conclude che dire la verità al malato senza riguardi o con modalità sgradevoli sarà deontologico ma non umano. Inoltre questo tipo di etica medica può, in molti casi, concorrere a uccidere il malato nel giro di pochi giorni.
Si deve dire la verità al malato, e come? Il tema è delicato, ma antico. Secondo la deontologia dire la verità è dovere del medico e conoscerla è un diritto del paziente. Il rapporto medico-paziente è sempre fondamentale. Qualunque sia l'evoluzione del mondo e della società dobbiamo contrastare il degrado verso una medicina burocratica e routinaria.
Opera e compito dei medici, come espressione di legge etica e immortale, sono ormai definiti da millenni. Dal giuramento di Ippocrate, alla preghiera dell'ebreo Maimonide - medico, giurista e filosofo ispano-moresco - la più alta espressione del giudaismo medievale.
Grave conflitto spirituale può sorgere quando il medico ritiene la malattia incurabile, e la fine inevitabile e prossima. In questi casi prassi e consuetudini si sono evolute nel tempo. Il cardinale De Veio Caetani - nel libro «Summula», scritto nel XIV secolo - affermava che il dovere della rivelazione di gravità spetti ai parenti ai quali il medico deve rendere noto l'incombente pericolo, e non al medico che ha il precetto professionale di infondere speranza.
Oggi, si registrano posizioni contrastanti. Nei Paesi anglosassoni, specie del Nord-America, i mandati legali ed etici prevedono una informazione al cittadino infermo del tutto trasparente, scabra, quasi brutale, con riferimento a tutto ciò che lo riguarda e gli accade. Una importante corrente di pensiero, per contro, ritiene che una informazione minima, data dal medico, permette di affrontare meglio la malattia. Secondo tale impostazione solo una netta minoranza di malati vorrebbe conoscere veramente la diagnosi di una grave malattia ad esito infausto, anche se in gran parte il paziente sospetta qualcosa.
La comunicazione medico-paziente diviene centro di gravità della medicina: tuttavia, secondo il Censis, il 77 per cento dei malati ha un'opinione altamente insoddisfacente dell'informazione sanitaria.
Riflettere sulla missione del medico significa comprendere l'ineluttabilità della sofferenza che prevede malattia e morte. Che cosa chiede in verità il malato al dottore? L'essenza della domanda è sempre la stessa: fammi star bene, fammi vivere.
Malattia, dolore, morte non sono semplici eventi biologici. La cura non è mera sequenza meccanica di prestazioni tecniche. Il binomio malattia-cura è ente squisitamente legato alla persona, di volta in volta una «singolarità».
Il medico non può nascondersi dietro una presunta neutralità scientifica, oggi ancor più complicata da problematiche economiche, organizzative e gestionali. Non basta - ricordando La peste di Camus - scoprire, vedere, descrivere, registrare, prescrivere. Non dimentichiamo che «therapeia», in greco, significa servizio. La relazione tra medico e paziente è soprattutto l'incontro tra due coscienze.
Che fare concretamente? Innanzi tutto la verità sulla malattia è sempre multiforme, in rapporto al carattere, alla psicologia, alla fragilità di ogni paziente. Il medico non ha solo la responsabilità dell'esattezza delle sue affermazioni, ma anche quella del loro effetto sul malato. Spesso i malati chiedono di sapere per non voler sapere. Il filosofo Karl Jasper, in un testo di profonda riflessione sulla medicina umanistica, ha affermato che il malato non vuole veramente sapere ma ubbidire.
Bisogna, inoltre, distinguere tra diagnosi e prognosi. La diagnosi va resa nota, perché verificabile e documentata, pur con i limiti della medicina, che non è scienza esatta. Se il paziente apprende la propria diagnosi o per errore o da altri, si sente ingannato, precipita in un gorgo di ossessive e drammatiche ipotesi e si rompe il rapporto fiduciario con il medico e il reciproco patto di collaborazione.
Per quanto riguarda la prognosi, preliminarmente, il concetto di fine prossima e di malattia inguaribile è sempre un'opinione più che un fatto e si fonda quasi sempre su proiezioni statistiche. Ma ogni malato è un caso «unico».
L'affermazione di incurabilità, del resto, è relativa al tempo e cioè subordinata a nuove scoperte terapeutiche. La storia della medicina - specie negli ultimi anni - dimostra come il prognostico può evolvere in senso più favorevole, anche in breve periodo. Nel contesto etico della medicina del dialogo è sbagliato parlare troppo poco con gli ammalati, ma anche parlar troppo o in troppe persone, con inutile ressa attorno all'infermo, che può rimanere avvelenato - insieme con i parenti - da sterili amarezze e inutili rimpianti.
Conclusivamente la comunicazione tra medico e malato deve essere sobria, chiara e semplice, facendosi carico di ogni domanda e garantendo sempre rispetto e dignità. Accompagnando la persona debole e alleviandola dal peso della paura.
È in ogni caso da evitare la congiura del silenzio. Per contro va sempre lasciata accesa la fiaccola della speranza, con spazio al dubbio - anche con solidale dissimulazione onesta - incoraggiando ogni energia per affrontare e combattere la malattia. Essere sinceri senza togliere la speranza. Sempre con un sorriso empatico contro il dolore. Non sempre si può curare, ma sempre si deve consolare.
Quando le cure falliscono bisogna alimentare una speranza diversa. Quella di riuscire a convivere con la malattia senza dolore. Non più speranza di guarigione, ma certezza di non essere lasciati soli, esclusi, emarginati in un «gulag» ignoto di sofferenza, specie quando si avvicina la morte.
La melanconia della solitudine - ha scritto Francesco Redi, famoso medico e poeta del XVII secolo - coopera molto che i mali si radichino profondamente ne’ nostri corpi. Precetti di dimensione umana dell'arte medica, immutabili nel tempo: vedere nel malato la propria immagine sotto i patimenti.

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