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Corsa al Colle, Draghi si tira fuori: "Non sono un politico"

Il presidente della Bce esclude una sua possibile candidatura a presidente della Repubblica, dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano

ROMA. «Non voglio essere un politico»: Si chiama fuori dal totoquirinale Mario Draghi. Dopo Romano Prodi, ora è il presidente della Bce a dirsi indisponibile per il Colle più alto, spiegando al quotidiano tedesco Handelsblatt che resterà alla Banca centrale europea fino al 2019. Ma chi ha consuetudine con le liturgie della politica sa bene che un esibito disinteresse non basta. Così come, da qui alla convocazione dei grandi elettori a fine gennaio, tutti diranno di non voler fare nomi e di non voler porre veti, ma è certo che il prossimo mese non sarà dedicato che a questo.

Da Palazzo Chigi non si conferma un incontro Renzi-Berlusconi subito dopo la Befana, ma contatti ci sono stati anche prima di Natale per stringere i bulloni del Patto del Nazareno e iniziare a trattare la partita del Colle. In ambienti parlamentari si assicura che tra i nomi fatti a Berlusconi ci sono quelli di Anna Finocchiaro (donna e del Pd) Pierluigi Castagnetti e Sergio Mattarella («ma sul tavolo della dirigenza di Forza Italia al momento non c'è nessuna rosa», si frena da Fi).

Intanto il totonomine continua ad impazzare e a giorni alterni salgono e scendono nomi di politici (si continua a parlare di Prodi, Grasso, Padoan, Veltroni, Fassino), tecnici (alte le quotazioni di Cantone e Draghi, che appunto oggi si autoesclude), outsider (lanciati in pista addirittura Roberto Benigni ed il fondatore di Slow Food Carlo Petrini). Ma c'è chi garantisce che Renzi il nome vero lo terrà coperto fino all'ultimo momento utile, magari un attimo prima della quarta votazione (quella dove il quorum richiesto scende a 505 consensi, numero prossimo ai 460 voti in teoricamente in mano al Pd).

Resta un punto fermo la dichiarata volontà del premier di cercare prima un'intesa tra i 460 parlamentari Pd; il nome o la rosa dei nomi verranno poi sottoposti agli alleati di governo e quindi si cercherà una «maggioranza ampia» nel dialogo con Forza Italia e con gli esponenti M5s.

L'apertura ai grillini, nelle intenzioni di Renzi, non è un 'piano B' ma un metodo per convergere su un nome dal consenso il più possibile vasto. Ma è ovvio che questo possibile 'secondò fornò serve anche a frenare possibili rigidità, come quelle di chi in Forza Italia insiste: «Prima il Colle, poi la legge elettorale».

Al di là delle dichiarate intenzioni di aprire il dossier solo dopo metà gennaio, quando Napolitano si sarà ufficialmente dimesso, le trattative tra forze politiche sono ampiamente in corso e hanno come tasselli non solo la corsa al Quirinale ma anche l'intesa su legge elettorale (in Aula a Palazzo Madama il 7 gennaio) e riforma costituzionale del Senato e del Titolo V (in Aula a Montecitorio l'8 gennaio). Tra Fi e Area Popolare (Ncd-Udc-Sc) sul nome del prossimo Presidente sono in corso contatti frequenti: ad Arcore è piaciuta l'idea di Angelino Alfano di un 'patto di consultazionè per fare dei 250 voti di centrodestra (Fi ed Area Popolare) un 'pacchettò per avere maggiore peso rispetto alle proposte del Pd.

Silvio Berlusconi, con i suoi 130 grandi elettori (40 voti sono però della minoranza fittiana) è fermamente intenzionato a restare al centro del processo delle scelte. Per questo continua a stare in silenzio, dopo il discorso di fine anno di Giorgio Napolitano.

A Gianni Letta è toccata nella notte di San Silvestro la rituale telefonata di complimenti al Colle, mentre 'pasdaran' del calibro di Brunetta e Santanchè continuano ancora oggi a denunciare il Capo dello Stato uscente per aver «sospeso la democrazia, puntando a distruggere il centrodestra ed il suo leader Berlusconi».

Ai blocchi di partenza della corsa al Colle Fi si presenta in ogni caso chiedendo a più voci la «pacificazione» e un nuovo Presidente che ponga fine alla vicenda giudiziaria del suo leader, «colpa di una magistratura politicizzata».

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