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Salerno: «In Sicilia migliaia di aziende chiuse, resiste chi punta sulla qualità»

Per il vicepresidente di Confindustria Sicilia «bisogna programmare, garantire regole certe e scelte strategiche puntuali»

PALERMO. Più del sei per cento delle imprese siciliane sparite in sette anni, numeri più che doppi rispetto alla crisi nel Mezzogiorno. Ma, secondo Nino Salerno, vicepresidente di Confindustria Sicilia, la «ricetta» per superare le difficoltà deve sganciarsi dalle emergenze e passare attraverso una seria pianificazione.

 Nel settore terziario 78 mila imprese hanno chiuso i battenti nel 2014. Qual è più in generale la situazione delle aziende siciliane?

«Se l’Italia è in difficoltà, la Sicilia è proprio in apnea. Anche perché, come ha sottolineato la Banca d’Italia nell’ultimo report, quei timidi segnali di ripresa che si erano intravisti alla fine del 2013, si sono spenti: le esportazioni sono diminuite dell'11,1 per cento, in controtendenza con la media nazionale (+1,3%), le importazioni hanno fatto registrare un -10,5 per cento e le imprese hanno segnalato un ulteriore calo della spesa per investimenti in tutti i settori principali. Il risultato di tutto questo è, a cascata, un calo delle imprese attive scese, secondo InfoCamere (dati Movimprese), a 370.010 unità alla fine del I trimestre 2014, con una flessione del 6,2% rispetto al 2007, anno di inizio della crisi; è il caso di rilevare che si tratta della peggiore dinamica tra le regioni, a fronte del -2,9% del Mezzogiorno e di un totale nazionale pressoché costante nel periodo (-0,7%)».

A pesare è il calo dei consumi, a influire negativamente è il mercato interno o anche quelli esteri?

«Sicuramente la crisi economica ha prodotto una calo nella fiducia dei consumatori, bloccando ulteriormente la richiesta di prodotti e servizi. Unica eccezione, per l’offerta di qualità. I dati più recenti hanno infatti dimostrato che le imprese che, in questo periodo, sono riuscite a innovare e a proporre prodotti di alto livello sono state comunque premiate dai consumatori. E questo sia nella domanda interna che sui mercati esteri. È chiaro che la mancanza di prospettive certe di ripresa, unita al continuo ricorso a cassa integrazione e mobilità, ha scoraggiato i consumatori che hanno preferito amministrare le risorse a disposizione in maniera più oculata e attenta. E a nulla è valso, spesso, il sacrificio delle imprese che, pur di mantenere quote di mercato, hanno preferito vendere abbattendo i margini di profitto pur garantendo la qualità del prodotto».

Nel commercio resiste soltanto, in controtendenza, quello ambulante: come spiega questo dato?

«Innanzitutto perché è molto più semplice organizzare un punto vendita ambulante, rispetto alla normale procedura per una attività commerciale che richiede costi e tempi per rilascio di licenze, certificazioni, autorizzazioni, pareri e chi più ne ha più ne metta. Il rischio maggiore per un ambulante è quello di una multa o di avere intimato di ”sbaraccare”. Per una attività commerciale gli adempimenti fiscali e amministrativi sono molto diversi».

Quanto influiscono fisco e burocrazia sulla crisi delle imprese?

«Se si pensa che un’azienda oggi paga al fisco qualcosa come il 68 per cento tra tasse dirette e indirette, la risposta è chiara. E se a questo si aggiungono i costi e i tempi biblici della burocrazia si capisce perché oggi chi fa impresa è da considerare un lucido folle».

Cosa è necessario in Sicilia per invertire la tendenza?

«I dati economici lasciano poco spazio alla fantasia: siamo in una situazione post bellica e gli interventi per riuscire a invertire la tendenza devono essere adeguati. Basta pannicelli caldi che servono solo a tamponare le emergenze, rimandando, la risoluzione dei problemi che diventa sempre più complicata a - non si capisce bene - quali migliori tempi. Occorre programmare, garantire regole certe, tempi rapidi e scelte strategiche puntuali che rendano questa terra appetibile. Viceversa, continueremo a parlare di desertificazione industriale, impoverimento produttivo e fuga di cervelli. Il nostro obiettivo, invece, deve essere quello di far vivere la nostra economia, investendo anche sul sociale, così da poter garantire un futuro ai nostri figli con una qualità di vita degna degli standard europei».

In queste settimane assistiamo ad un serrato dibattito sulle trivellazioni: il settore petrolifero può rappresentare oggi nuova linfa per l'economia siciliana?

«Sull’argomento, in queste settimane, abbiamo assistito solo a un dibattito ideologico che non tiene conto del fatto che l’energia in Sicilia costa più che nel resto del Paese. Partendo dal presupposto sacrosanto che qualsiasi investimento debba garantire rispetto dell’ambiente, della salute pubblica e assicurare l’occupazione, penso anche non è possibile a causa di polemiche strumentali mettere a rischio creazione di ricchezza di cui quest’Isola non può fare a meno».

La Sicilia ha appena visto svanire circa un miliardo di fondi Pac. Quanto è grave ciò?

«La perdita di risorse è sicuramente grave, ma ciò che è ancor più grave è l'assoluta mancanza di progettualità che ha poi determinato tale perdita».

Di chi è la responsabilità?

«Le responsabilità sono trasversali: dalla burocrazia che spesso diventa strumento di baratto, alla politica che dovrebbe fare da ”facilitatore” e che invece continua ad avere dei tempi che non sono conciliabili con quelli dello sviluppo e dell'economia. Voglio ricordare che il Piano di Azione e Coesione conteneva risorse messe a salvaguardia dal governo centrale che sarebbero dovute servire a realizzare interventi sull'edilizia scolastica, sull'agenda digitale, solo per citare alcuni esempi. E invece ci ritroviamo adesso con un pugno di mosche in mano».

 

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