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Mafia, giovani eredi e vecchi linguaggi

C’è un rito che si perpetua ad ogni blitz di mafia. Una passerella del disonore, che tale dovrebbe essere negli intendimenti di inquirenti e forze dell’ordine e che, a prospettive invertite, muta in liturgia dell’aberrazione. Un complesso e mai casuale intrigo di gesti, sguardi, smorfie, espressioni, baci e occhiolini, una sorta di ricca semantica visuale che molto racconta dei suoi protagonisti, almeno quanto le ordinanze di custodia e le sentenze che ne segnano le sorti.

Atteggiamenti che sembrano rispondere a una codificazione ben definita, studiata a tavolino, per mostrarsi forti, muscolari, ma allo stesso tempo sardonici, rilassati. Come se si trattasse in fondo dell’ordinaria e fisiologica celebrazione di un passaggio, una tappa inevitabile nell’evoluzione delinquenziale di capi e picciotti. Gli arresti e le condanne orgogliosamente esibiti come medaglie, come un reduce di guerra con le sue cicatrici.

C’è molto del linguaggio figurativo mafioso nei pochi secondi in cui i due rampolli vengono mostrati alle telecamere, ai fotografi (e agli immancabili parenti) mentre – tenuti sotto braccio da un paio di carabinieri - escono dalla caserma per essere condotti in carcere. Loro due, chiamati al ruolo che fu del nonno in un caso e del padre nell’altro. Più degli altri cinque, soldati e luogotenenti più dimessi, spaesati e imbronciati, sotto braccio ai poliziotti. Quasi come se il ruolo imponesse l’atteggiamento e quest’ultimo legittimasse e sancisse il ruolo.

Il primo a uscire è Calogero Lo Piccolo, figlio e fratello – nonché erede - di ergastolani, con una fedina penale già segnata. Non nasconde le manette, si guarda attorno e mantiene sempre lo stesso ghigno tendente a un beffardo sorriso. Ostenta sicurezza, nel suo look molto informale: giubbotto, maglia in pile, pantaloni di tuta, sneakers.

Simile tenuta – quasi una divisa, bisogna essere comodi e informali, l’attività si dipana fra bassi, botteghe e marciapiedi – per Leandro Greco. Lui la fedina penale l’ha ancora immacolata, ma a 28 anni comanda già a Ciaculli, nel feudo che fu del nonno, il Papa di Cosa nostra. Si fa chiamare come lui, Michele, per legittimare ulteriormente il suo ruolo. E in quei pochi secondi necessari per scendere dieci gradini c’è tutta la spocchia del mafioso rampante e guascone, al netto delle manette tenute nascoste sotto a un cencio: prima fa un occhiolino, poi lancia due baci, poi borbotta qualcosa, quindi si guarda attorno e infine manda altri due baci. Il tutto senza mai modificare quella maschera facciale declinata al sorrisetto sbruffone. Il messaggio è chiaro: tranquilli, è tutto ok, sto a sostanziare il curriculum. Il tutto in un rapido poutpourri di smorfie e ammiccamenti.

Nel suo libro «Il linguaggio mafioso», presentato proprio a Palermo poche settimane fa, il ricercatore di linguistica italiana Giuseppe Paternostro esamina e analizza in modo minuzioso i modi di fare, i toni di voce, le espressioni del prototipo mafioso, capace di dire senza parlare. Tanto che - sottolineava – «proporrei di togliere il termine silenzio e userei ambiguità, perché quello della mafia non è un linguaggio assente ma un linguaggio ambiguo, è attraverso il suo dire e non dire che si rapporta col mondo esterno».

Provate per un attimo, in un rapido flashback, a ricordare i volti e le espressioni di Riina e Provenzano al momento dei rispettivi arresti: latitanze fiume – quasi leggendarie – che si chiudevano consegnando all’iconografia di genere i loro volti mai immusoniti, mai imbronciati, semmai piegati a un ghigno che ne documentava la lapidaria ferocia. E proviamo a ricordare i sorrisi sarcastici di Michele Greco dietro le sbarre del maxiprocesso, quando nell’ultima udienza prima della sentenza augurava alla Corte che «la pace vi accompagni per il resto della vostra vita».

Erano segnali anche quelli. Che loro come altri si sono portati in carcere fino alla morte. E che però si perpetuano ad ogni nuova retata di mafia. Oggi come allora. Perché se è vero che non è giusto che le colpe dei padri ricadano sui figli, è altrettanto vero che certi figli (o figli di figli) sono eredi non solo all’anagrafe. Fra sorrisi beffardi e bacetti rassicuranti. Criminali i primi come i secondi. I padri come i figli. I nonni come i nipoti.

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