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Accordo sui migranti a Bruxelles. E lo chiamano successo

Un sorriso a denti stretti a favore di telecamere, un ciuffo più scompigliato del solito per quelle 13 ore di full immersion negoziale, uno smozzicato «si poteva fare di più, ma eravamo in 28».

Il Conte che emerge dal vertice di Bruxelles è un premier che prova a tratteggiare un bilancio positivo per l’Italia diventata brutta, sporca e cattiva agli occhi di un’Europa già di suo sorda alle urla disperate che si alzano da un Mediterraneo macchiato dal sangue di migliaia di disperati. Oltre che dalle scie di carburante lasciate dalle imbarcazioni delle Ong più o meno abusive che indossano i panni – a seconda dei punti di vista - di affaristi o di angeli custodi dei flussi migratori provenienti dalle coste libiche e non. Prova a tratteggiarlo in modo positivo, questo bilancio, Conte. Già. Consapevole forse che è difficile darla del tutto a bere a chi, a cominciare dal suo scomodo ministro degli Interni, in realtà in quell’accordo ci vede ben poco di lusinghiero. Diciamola fino in fondo: anche a volersi sforzare, nel setaccio dell’analisi finale di quei 12 punti sottoscritti nella notte, per l’Italia resta solo sabbia e nessuna pepita.

Suona beffardo il riferimento ai centri di accoglienza da distribuire qua e là nel Vecchio Continente su base volontaria, che fa già gongolare non solo i quattro compari di Visegrad, ma lo stesso ineffabile Macron. Il quale si affretta a ricordare che l’incombenza è tutta dei Paesi di primo arrivo. E che la sua Francia, a scanso di equivoci, naturalmente non lo è. Se poi dobbiamo anche riprenderci i clandestini sbarcati sulle italiche sponde, scappati oltre confine e pescati in Germania e Austria, allora il quadro è completo.

Altro che «Italia non più sola», per dirla con le parole di Conte, che prova a dare dello «stanco» a Macron e a negare l’esistenza di intese specifiche sui migranti di ritorno. A conferma che, fatto l’accordo, tutto resta nella nebulosa delle interpretazioni soggettive. Non a caso è ben più pragmatica, oltre che più scafata e meno avvezza ai facili entusiasmi, frau Merkel, che sottolinea come sul tavolo le divisioni restano eccome. Intanto, ciò che più per lei conta, ha smorzato i venti di crisi interna. Obiettivo raggiunto, il suo. Insomma, tanto tuonò che… tuonò e basta.

Nessuna apertura di tutti i porti europei ai flussi e nessuna distribuzione obbligatoria. Se ne riparlerà quando si tratterà di rimettere mano al trattato di Dublino. Col tutt’altro che marginale dettaglio che nell’agenda dei prossimi impegni sotto l’egida Ue questo appuntamento non risulta. Nel più classico e pilatesco dei «per ora così, poi si vedrà». Nel frattempo, però, gli sbarchi continueranno. E con essi purtroppo le tragedie degli annegamenti, come raccontiamo per l’ennesima volta anche oggi in queste pagine. E siccome l’Italia è lì in prima linea, le alternative sono tre.

La prima: il codificato principio di volontarietà di accoglienza da parte di altri Stati si concretizzerà e allora si andrà alla dislocazione. La seconda: l’Europa svicolerà (come sempre) e il Bel Paese dell’accoglienza e della solidarietà se li terrà tutti, proprio tutti. La terza: l’Italia brutta, sporca e cattiva dell’ineffabile Salvini li rifiuterà e li lascerà lì in balìa delle onde. E quest’ultimo orientamento ieri è stato espresso senza remore dallo stesso ministro leghista.

Davanti a tutto ciò, perché dunque Conte, invece di battere i pugni e gridare al complotto, ha parlato comunque di successo? Forse perché con l’Europa bisogna dialogare anche su altri tavoli che non siano quelli legati ai migranti? Il teorema in effetti regge. Ieri la seconda giornata del consiglio europeo era dedicata ai temi economici e al rafforzamento dell’Eurozona. E un potere negoziale più forte per l’Italia appare strategico, nell’ottica di un governo che ha basato buona parte del proprio ormai famoso contratto su argomenti che poco appeal hanno trovato nei partner europei fin dai primi vagiti. Dal reddito di cittadinanza alla flat tax, fino alla riforma delle pensioni, gli altolà sul rischio default piovono in modo concentrico su Roma, Bce in testa. Al punto da costringere l’esecutivo gialloverde a rideterminare non solo qualche scelta interna, ma anche qualche recriminazione transnazionale.

Insomma, magari si battono adesso meno i pugni sulla questione migranti per batterli d’ora in poi un po’ di più sulla questione conti. Funzionerà? Il rischio, diciamo pure l’impressione, è che così l’Italia rischia di dover abbozzare in entrambi i casi. Mentre in mare si continuerà a morire e l’Europa continuerà a guardare. E contemporaneamente a fare le pulci ai conti romani. E lo chiamano successo…

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