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Elezioni, la strategia dell’indefinitezza

PALERMO. Non è stata la più entusiasmante delle campagne elettorali. Forse perfino la più dimenticabile. Complice un sistema elettorale complesso e fin troppo elaborato. Che rischia di riversare milioni di schede nulle o contestate sui banchi dello spoglio.

Che non ha garantito la possibilità di approssimarsi alle urne con schieramenti ben definiti, programmi unitari e candidati premier aggreganti. Che ha ridotto al minimo storico l’identificabilità specifica degli aspiranti parlamentari, scelti nel chiuso delle segreterie o nelle foschie della rete, più che nei territori e nelle realtà di base.

Che ha finito per lasciare il proscenio ai soli leader o semileader, a loro volta ben attenti a rifugiarsi prudentemente in teatri, studi televisivi e piattaforme social, piuttosto che «sfidare» le piazze desertificate del consenso di massa. Un mix che tiene fatalmente il partito dell’astensionismo in primissima linea.

È stata una campagna elettorale dipanatasi a step. Il primo: l’abolizionismo esasperato, giocato al rilancio spesso scriteriato e quasi sempre disancorato dalla realtà, in cui il «noi tagliamo questo» e il «noi invece tagliamo questo e quest’altro» non hanno incantato più di tanto la platea elettorale. A quel punto si è passati al secondo step: l’individualismo frenetico, un susseguirsi di intorpiditi «one man show» in cui però ha prevalso più la spettacolarizzazione del messaggio che la concretezza dello stesso. Insomma, diciamola più grossa che credibile.

E i sondaggisti a cercare invano transumanze conseguenti. Terzo e ultimo step, il più censurabile: la disfida degli opposti, l’estremismo pseudoideologico che ha ammorbato la campagna elettorale di intolleranze e intemperanze, violenze e devianze.

Nel frattempo da Bruxelles e dalle capitali europee echeggiavano palesati (e poi diplomaticamente smorzati) timori sul post voto, in un’Italia che resta comunque pilastro portante di un’Unione traballante. Della quale ancora non regge il ritmo di una ripresa generale, ma che avanza a passi distonici e sulla quale inevitabilmente incideranno – in positivo o in negativo che siano – le scelte del nuovo governo. Già, il nuovo governo. Come e chi? Lo decideranno gli elettori, sarebbe la risposta più scontata. Ma così sarà solo nella improbabile ipotesi di un’affermazione netta e perentoria di uno dei vertici dell’italico tripolarismo politico. Anche in questo caso, la legge elettorale però non sembra aiutare.

E allora? Non è casuale che l’intera vigilia sia stata vissuta sulla strategica e studiata indefinitezza dei giochi. Cinquestelle a parte – rigorosamente soli alla meta e dunque con un leader già designato – gli altri due schieramenti principali non hanno di fatto indicato un premier (il centrosinistra) o non hanno indicato un premier unitario (il centrodestra), né programmi pluripartitici, né alleanze granitiche. Mentre piccoli e medio-piccoli ballano sulla sottile linea-sbarramento del contare o sparire.

E intanto i «chissà vedremo» si sono susseguiti sempre più corali davanti alle ipotesi di governi di scopo, larghe intese, esecutivi a tempo, trasversalismi, inversioni e ribaltoni. Cosa che, semmai ce ne fosse bisogno, non ha certo scatenato entusiasmi di piazza e sventolii di bandiere. Eppure un esecutivo di compromesso appare oggi, alla vigilia dello spoglio, la più prevedibile e saggia delle eventuali soluzioni. La stabilità e la governabilità sono condizioni indispensabili per il corretto dipanarsi del percorso socioeconomico di un Paese, al netto di populismi di maniera, qualunquismi di retroguardia e pericolosi salti nel buio. Di questo l’Italia ha oggi bisogno. Al di là di chi vincerà. Che peraltro non è detto sarà poi chiamato a governare. Potremmo banalmente e romanticamente sperare nella vittoria della Politica vera. Restando (illusoriamente?) abbarbicati a quella maiuscola iniziale. Nel frattempo, buon voto.

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