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Rinvio Brexit, il Parlamento di Londra dà l'ok

Theresa May

Brexit rimandata in Regno Unito: una maggioranza in favore della mozione presentata dal governo consentirà a Theresa May di chiedere al prossimo Consiglio Europeo un rinvio "breve" dell’uscita dall'Ue, dal 29 marzo al 30 giugno. Una mano santa di fronte ai timori di un brusco "no deal" e un modo per ritrovare un minimo di margine di manovra. La mozione ha raccolto 412 sì contro 202 no, grazie anche alle concessioni fatte a opposizioni e
dissidenti interni: non ultimo l’impegno a indicare come «altamente probabile» l’alternativa di uno slittamento a più lungo termine della Brexit.

Per la premier Tory (azzoppata dalla seconda bocciatura di martedì sulla ratifica del proprio accordo e dalla sconfitta del giorno dopo sui contenuti di una mozione anti-no deal), il risultato odierno appare positivo. Tanto più poiché corredato da una serie di no alla raffica di emendamenti promossi da oppositori e ribelli per provarle a legarle le mani.

Un no di strettissima misura (314 contro 312) nel caso del testo presentato dai laburisti eurofili Hilary Benn e Yvette Cooper con l’obiettivo di sottrarre in sostanza all'esecutivo il controllo delle prossime mosse negoziali e di attribuire al Parlamento il diritto prioritario di mettere in cantiere «voti indicativi» su progetti di Brexit diversi dal suo, alla caccia di maggioranze trasversali.

Un no netto invece contro il tentativo di un drappello di indipendenti di collegare il rinvio con l’obiettivo di un secondo referendum: speranza che i pro Remain più irriducibili non smettono di coltivare, soprattutto se lo stallo e i veti incrociati continuassero a farla da padrone, ma che stasera si prospetta in effetti più remoto sullo sfondo del sostegno incassato da appena 85 parlamentari e del voto contrario di ben 334 colleghi; maggioranza assoluta e blindata dell’aula anche al netto della criticata astensione decisa da Corbyn a nome del grosso del gruppo laburista.

Le buone notizie per la May finiscono tuttavia qui. Di fronte le resta una strada tutta in salita per ricompattare la sua
lacerata maggioranza sul voto che conterà davvero, in calendario per martedì 19 o mercoledì 20 se lo speaker dei Comuni, John Bercow, lo ammetterà per la terza volta in poco più di 2 mesi.

Strada lungo la quale riecheggia qualche segnale di parziale disgelo dagli indocili Tory brexiteer ultrà dello European
Research Group (Erg), come dai vitali alleati unionisti nordirlandesi del Dup, condizionato peraltro da molti se e molti ma, legati soprattutto alla possibilità che l’attorney general del governo, Geoffrey Cox, possa riverniciare un po' il suo parere legale sul valore vincolante delle rassicurazioni recenti ricevute dall’Ue sul controverso backstop.

Mentre da Bruxelles e dalle capitali europee, Roma inclusa, accanto a qualche cauto sospiro di sollievo continuano a fioccare moniti e avvertimenti: primo fra tutti quello del capo negoziatore, Michel Barnier, che evoca «una situazione di incertezza ancora grave» e il dovere di prepararsi comunque a un scenario di no deal di default tutt'altro che scongiurato. Il rinvio non è affatto automatico, ha messo in guardia anche un portavoce della Commissione: servirà l’unanimità dei 27 al prossimo Consiglio europeo del 21 e 22 marzo a Bruxelles.

E, come se non bastasse, da Washington rimbalzano pure le bacchettate del grande alleato americano Donald Trump contro la strategia esitante attribuita a lady Theresa: rea - sentenzia il presidente ricevendo alla Casa Bianca il premier dell’Irlanda Leo Varadkar - di «non aver ascoltato i miei consigli».

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