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Esplosioni a Giacarta, Narbone: «Nuovi attentati per scatenare la paura nel mondo»

PALERMO. «Credo che il livello della minaccia del terrorismo islamico sia destinato ad aumentare e a diversificarsi. Purtroppo, malgrado il livello di allerta, il pericolo di altri attentati rimane alto». Luigi Narbone, alle spalle una lunga esperienza diplomatica all'Unione Europea e all'Onu, attuale direttore del programma di studi mediorientali nello «Schuman Center» dell'Istituto universitario europeo di Firenze, invita a non sottovalutare il pericolo jihadista. Sarebbe come nascondere la testa nella sabbia. Autore del nuovissimo saggio «Contro la paura» scritto insieme con Vittorio Demicheli e Giulio Massobrio per la casa editrice Baldini&Castoldi, Narbone spiega: «Secondo stime internazionali, ci sono almeno 30.000 foreign fighters in Siria e Iraq. Di questi, almeno 4-5.000 provengono dall’Europa. Molti tornano a casa disgustati dalle nefandezze dell’Isis. Altri, no. Sono terroristi ben addestrati, determinati ad usare il terrore come arma asimmetrica del Jihad globale».

Tutti i sondaggi rivelano che l'allarme-sicurezza sta crescendo tra i cittadini, in Italia e in Europa. Come muterà, anzi come sta mutando il nostro stile di vita sulla spinta della paura?
«È lo strumento principale usato dal terrorismo. Facendo leva sull’orrore, il terrorismo alimenta la percezione di una mancanza di sicurezza. Le paure fanno parte della nostra vita quotidiana da millenni, ma nelle società contemporanee sono divenute diffuse, in grado di orientare comportamenti e reazioni di massa. Come diciamo nel nostro libro, la paura oggi pervade il nostro esistere».

Un vicolo cieco?
«È come vivere in una condizione di guerra permanente, una guerra senza vinti né vincitori possibili. Questo sarà il background del nostro mondo per molti anni a venire e ha già cambiato il modo in cui viviamo. È importante agire per contrastare l’impatto devastante della paura sulla coesistenza civile. Non abbiamo bisogno di ulteriori timori, ma di politiche che riducano gli effetti distruttivi della paura sociale».

Leggo dall’introduzione del vostro libro che è, intanto, «cambiato completamente il tavolo da gioco delle potenze in guerra». In che modo?
«Quella che l'Isis sta combattendo in Siria, in Iraq, in Libia e cerca di estendere anche al mondo occidentale, è una guerra asimmetrica nella quale il combattente più debole utilizza armi convenzionali e non, fra le quali vi è l’uso del terrore e del Web. È proprio il Web a cambiare completamente il tavolo da gioco. La guerra classica comportava l’individuazione di un nemico, di un territorio e di un tempo preciso per le operazioni militari e l’obiettivo era la vittoria».

Altra cosa il mondo virtuale.
«Nel mondo virtuale del Web lo spazio diviene globale e il tempo è un arco temporale sincronico in cui avviene il coordinamento delle forze più disparate: militari, economiche, finanziarie, politiche, culturali, eccetera. Nella guerra asimmetrica tutto può essere utilizzato e il solo limite sta nell’obiettivo che si vuol conseguire. Ogni cosa può diventare un’arma. È evidente che la paura è un’arma potentissima».

L’Isis affascina migliaia di giovani. Può spiegarci le ragioni di tanta attrazione fatale?
«Possono essere religiose, idealistiche, economiche o semplicemente la ricerca dell’avventura. Molto importanti sono le ragioni sociologiche, come il bisogno di appartenere. Spesso si tratta di giovani provenienti da famiglie di migranti ben integrate, ma ci sono anche sempre più convertiti francesi, belgi, inglesi... Di certo gioca un ruolo importante la propaganda dell’Isis su internet e nei social media, la prospettiva di partecipare alla costruzione di uno stato islamico che servirà da base per il futuro Califfato globale, promettendo un’alternativa al modo di vita occidentale da cui molti di questi giovani si sentono esclusi».

Lo Stato Islamico si estende attualmente per almeno 78 mila chilometri quadrati. Difficile governare un territorio così vasto senza avere anche consenso. Insomma, funziona «l'amministrazione della barbarie» così come previsto dal teorico dello jihadismo Abu Bakr Naji?
«L’Isis è ben cosciente della necessità del consenso delle popolazioni locali e cerca di ancorarsi al territorio attraverso alleanze con le tribù, struttura sociale chiave in Medio Oriente, di cui sfrutta il sistema di legittimazione sociale e culturale, giocando al contempo sulle rivalità, in un "divide et impera" che accentua le divisioni all’interno delle comunità locali. Tuttavia, le tensioni tra popolazione locale e miliziani crescono con il consolidarsi del controllo sul territorio. Decapitazioni, amputazioni e fustigazioni per violazione della Sharia creano inevitabili resistenze».

Quindi?
«Questo contrasta con l’utopia del Califfato come comunità armoniosa, come Stato che si prende cura dei bisogni spirituali e materiali della gente. Nei territori sotto il controllo dell’Isis la realtà è dura e la qualità e il tenore di vita precipitano. Lasciato a se stesso probabilmente lo Stato Islamico marcirebbe dall’interno per le sue debolezze e contraddizioni, la sua incompetenza, la cattiva amministrazione, la corruzione, la ferocia. Ma il governo del territorio non è una cosa importante in sé. L’Isis segue le idee di Naji, secondo il quale i gruppi jihadisti devono creare caos e barbarie, provocando l'implosione degli Stati nazionali, spesso risultato di guerre civili e dell'intervento delle potenze occidentali».

Nel saggio, lei ricorda come a maggio il Califfato abbia conquistato Ramadi in Iraq, dopo avere sferrato l'attacco a una raffineria che si trova a nord di Baghdad. Fin troppo evidente il parallelo con quanto sta avvenendo in Libia?
«Sul terreno, come nelle scelte politico-strategiche, l’Isis è opportunista. Sposta l’azione dove minori sono le resistenze, con attacchi a sorpresa per infliggere il massimo numero di vittime e seminare paura per poi ritirarsi minimizzando le perdite. Non si tratta di un’organizzazione terrorista di tipo tradizionale, ma di una vera e propria struttura militare che utilizza strategie e tattiche della guerra insurrezionalista».

Cioè?
«Da un punto di vista tattico l’ISIS combatte sempre su più fronti, costringendo il nemico a estendersi eccessivamente per poi trovare un punto di rottura. L’esempio dell’offensiva per la conquista di Ramadi è calzante. Tattica evidentemente ripresa nel contesto libico, dove gli attacchi alle istallazioni petrolifere tendono anche a creare difficoltà economiche al nuovo governo nazionale».

Immigrazione e guerra "asimmetrica". Unione Europea e Onu in pesante ritardo, se non del tutto impreparate, di fronte a queste sfide?
«Nell’attuale crisi che paralizza l’Europa, la paura del terrorismo islamico si fonde con la paura di flussi migratori incontrollati. Una risposta efficace alle crisi passa necessariamente per un maggiore coordinamento europeo e internazionale che vada di pari passo con una maggiore integrazione delle politiche interne e internazionali. Si tratta di rispondere a sfide complesse che sono il risultato di un’interdipendenza crescente. Al contempo cresce l’intolleranza nei confronti dei migranti, molti dei quali sono rifugiati dalle zone di guerra mediorientali...».

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