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Governo in Libia, Ricci: «Ma siamo solo alla prima tappa»

PALERMO. «In Libia, la ”guerra dei due governi” è finita. Apparentemente, almeno». Alessandro Ricci, docente di «Geografia, rappresentazione e potere» all’Università di Roma Tor Vergata, preferisce non alimentare illusioni sul futuro prossimo nel «Paese del Caos». Lo studioso, che attualmente è anche uno dei coordinatori del sito specializzato «Geopolitica.info», avverte: «Bisognerà vedere se effettivamente si stabilizzerà lo scenario non solo sul piano formale e diplomatico, ma anche su quello sostanziale. Politico e sociale. È questa la sfida più difficile che da oggi si presenta per i libici e per le potenze occidentali».

Non tutti hanno firmato in Marocco l’accordo di unità nazionale per la Libia. Servirà?
«L’intesa, quantomeno tra i due governi, era la prima tappa necessaria per una successiva pacificazione nazionale. Questa passa per accordi interni e tribali, tutti vincolati alla sfaccettata mappa delle appartenenze locali libiche. Ma l’accordo è il momento incipiente, positivo, e fa ben sperare per le fasi prossime che riservano le difficoltà maggiori»

Sorpreso che il nuovo inviato dell'Onu, Martin Kobler, sia riuscito in poche settimane dove il suo predecessore, Bernardino Leon, aveva fallito in questi anni?
«Martin Kobler è riuscito laddove Bernardino León aveva, almeno in parte, fallito. Il precedente inviato dell'Onu in Libia aveva sfiorato l’intesa, poi sfumata negli ultimi giorni del suo mandato. Il suo lavoro è stato però essenziale per il successo di Kobler, che ha trovato il terreno sufficientemente fertile per addivenire all'accordo siglato ieri».

Sia a Tobruk che a Tripoli restano molti «intransigenti». L'intesa di Skhirat potrebbe paradossalmente favorire l'Isis, spingendo alcuni clan tribali dalla parte del Califfato?
«In un tale conflittuale e caotico teatro politico interno si può solo sperare che l'accordo appena siglato non rimanga una pura formalità o, nel peggiore dei casi, cartastraccia. Per evitare ciò, sarà essenziale riprendere in mano il controllo dei territori e assicurare che i singoli clan siano inclusi nella vita politica e non marginalizzati».

Quindi?
«Viste le mire strategiche del Califfato in Libia e la presenza che ormai si sta attestando sempre più prepotentemente nei territori intorno a Sirte, si potrebbe veder rafforzato il fronte dello Stato Islamico, producendo un risultato ancor più disastroso. Il rimedio più efficace è togliere al Califfato porzioni di sovranità, ristabilendone una che sia pienamente legittima e stabile e che possa normalizzare la vita politica del Paese».

Le tribù, appunto. Senza il sostegno di comunità come quelle Tuareg e Tebù, che controllano la regione desertica del Fezzan, si potrà mai restituire stabilità alla Libia?
«La stabilità, in un contesto geopolitico come quello libico, si ripristina attraverso una centralità di governo forte, riconosciuta internazionalmente e che veda una rappresentanza congiunta delle componenti etniche locali. È una missione di enorme difficoltà, perché le rivendicazioni territoriali e di appartenenza micronazionale, in assenza di una forte autorità centrale, possono riemergere prepotentemente, rischiando di destabilizzare i tentativi che si stanno intraprendendo per ripristinare l’ordine».

Decisamente pesanti anche le riserve espresse dal generale Haftar che chiede alle Nazioni Unite la revoca dell'embargo sulle forniture di armi. Altro fattore di incertezza?
«In parte è preoccupante la richiesta di Haftar, certo. In parte, però, è comprensibile perchè legata alla lotta anti-Isis. Per evitare ogni equivoco le potenze occidentali, anzitutto l’Italia, dovrebbero assicurare un monitoraggio costante, laddove non un affiancamento, nell’utilizzo delle armi contro gli insediamenti dello Stato Islamico».

Sia il premier Renzi che il ministro Gentiloni hanno sottolineato l'impegno dell'Italia per la pacificazione libica. Inevitabile l'intervento militare?
«È imprescindibile un intervento italiano, anzitutto politico e diplomatico prima che militare. Ma ad una condizione di instabilità, che ha assunto la forma di una guerra civile, non si può non rispondere anche militarmente, avendo però una chiara strategia politica. L’intervento militare deve rappresentare infatti solo l'ultima, inevitabile ”ratio” di un progetto politico».

Cioè?
«Senza progetto politico si rischierebbe di ripetere gli errori che l'Occidente ha già commesso in altri contesti di forte crisi e instabilità. E l’Italia è il Paese che geograficamente, storicamente e strategicamente può e forse deve impegnarsi per la stabilità libica, alla quale è legata anche quella delle nostre frontiere».

Il califfo, intanto, punta sull'area mediterranea e sta crescendo il numero di «tagliagole» in Nord Africa, addestrati a Sabrata ma non solo. Sempre più difficile sradicarli da quella regione?
«L’Isis si insedia laddove non esiste un controllo statuale autorevole sul territorio. Rappresenta cioè un'alternativa negativa a uno Stato in via di fallimento o fallito. Riconquistare posizioni di controllo legittimo significa depotenziare lo Stato Islamico: per farlo, sarà indispensabile l’unità politica libica e il supporto delle potenze occidentali».

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