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Natalizia: nell'Islam cresce il fronte anti-Isis, ma il vuoto in Libia lascia spazio al Califfo

PALERMO. Los Angeles chiude le scuole «per credibili minacce terroristiche», mentre Obama decide di ”fare sul serio” nella lotta al Califfato e trentaquattro nazioni annunciano la formazione di un fronte islamico anti-Isis. «Resta, però, il più importante fattore di criticità: il progressivo disimpegno americano dal Medio Oriente che Obama, almeno a parole, sembra ora voler correggere», afferma Gabriele Natalizia. Il docente di Relazioni internazionali dell’Università Link Campus di Roma, direttore di «Geopolitica.info», spiega: «L’amministrazione Obama con la sua politica ha favorito una lotta senza quartiere tra i Paesi che ambiscono al ruolo di potenza-leader regionale. Nelle zone d’ombra di questo confronto, l’Isis ha saputo inserirsi tanto da essere considerato da alcuni Stati, nel migliore dei casi, come un male minore».

Malgrado tutto, qualcosa si muove. La nascita di un’ampia «Lega musulmana anti-Daesh» sembra la notizia più carica di significato. Siamo a una svolta?
«Potremmo esserlo. Ma non tanto rispetto alla motivazione per cui ufficialmente nasce la coalizione, la lotta allo Stato Islamico, quanto rispetto alla sua ragione sottointesa, la guerra che lacera l’umma (la comunità, ndr) musulmana. Questa ha assunto negli anni una duplice forma. Da un lato quello della violenza tra comunità sunnite e sciite presenti all’interno di realtà come Siria, Iraq, Yemen, Libano. Dall’altro, quello di un confronto tra Stati che cercano di imporre la propria egemonia su un’area, il cosiddetto ”Mena” ovvero Medio Oriente e Nord Africa, utilizzando la religione come fonte di legittimazione delle proprie mosse sullo scacchiere internazionale».

Quindi?
«Oggi l'Arabia Saudita è per la prima volta il capofila di un’alleanza militare che vede anche altre potenze del mondo sunnita, cioè Turchia, Egitto e Pakistan, riconoscergli un ruolo di guida. Si pone, in altre parole, in una posizione ben diversa da quella tenuta sinora partecipando alla Coalizione dei Volenterosi che ha effettuato missioni aeree contro l’Isis sotto il coordinamento degli Stati Uniti. Per l’Arabia, un incremento del proprio prestigio internazionale».

Sciiti e sunniti «contro», sempre e comunque?
«È opportuno ricordare che il mondo sunnita ha molte anime al suo interno. Sia sotto l’aspetto più squisitamente religioso, la visione del rapporto tra islam e potere temporale dei sufi è radicalmente diversa da quella di wahhabiti e salafiti. Sia sotto quello politico, in quanto le ambizioni egemoniche di Riyadh difficilmente potranno essere accettate nel medio periodo dalla Turchia o dal Marocco, ma anche dall’Egitto. Tuttavia...

Tuttavia?
«La frattura sotto gli occhi di tutti, al momento, è proprio quella tra sunniti e sciiti che sullo scacchiere internazionale si traduce nella competizione tra Teheran e i suoi alleati con i Paesi che hanno aderito alla coalizione messa in piedi dal ministro della Difesa saudita Mohammed bin Salman. A cui Iran, Iraq e Siria non partecipano, sebbene trovino nell’Isis una minaccia diretta ai propri interessi».

Il presidente Obama ha ammesso in queste ore che «la lotta contro lo Stato Islamico in Siria e in Iraq continua ad essere difficile». Un'ammissione del fatto che la strategia dei raid è un fallimento?
«La limitazione della missione contro l’Isis agli attacchi dall’alto è sicuramente parte del problema, ma non lo spiega interamente. Oltre al disimpegno americano nel Medio Oriente, di cui ho detto, va ricordato come il coinvolgimento nella crisi della Russia abbia reso ancora più esplosivo il quadro, aggiungendo un ulteriore elemento di rigidità tra gli schieramenti in campo».

La Turchia è nella lista della «Lega dei 34 Paesi». Le ambiguità di Erdogan sono finite?
«Ankara, ufficialmente, ha sempre tenuto una posizione ostile nei confronti dello Stato Islamico. Quindi, non sarà questa scelta a mutare la sua posizione. Al limite costituisce un ulteriore elemento di confusione negli attuali sistemi di alleanza. La Turchia, infatti, sarà al tempo stesso un Paese membro della Nato e di un’alleanza militare a guida saudita a cui partecipano molti Stati che hanno interessi spesso conflittuali, anche se talvolta non ufficialmente, con quelli dell’Occidente».

Messo alle strette in Medio Oriente, Abu Bakr al-Baghdadi traslocherà davvero in Libia per inondare di miliziani l'area mediterranea?
«È un’ipotesi molto verosimile, confermata anche durante i lavori dell’ultima Assemblea parlamentare della Nato che si è svolta a Firenze a fine novembre. Ormai troppi attori stanno ipotecando la propria credibilità internazionale con l’impegno a debellare l’Isis. Quanto meno in Siria, è presumibile che si arriverà prima o poi a una soluzione. A quel punto il nuovo ”vuoto” politico, che la dirigenza e i miliziani dello Stato Islamico in fuga potrebbero tentare di colmare, sarebbe proprio la Libia».

Forse, sarebbe meglio parlare di «ex Libia»?
«Quel Paese presenta una situazione politica con molti punti di contatto con quella della Siria dopo il 2011 e che ha favorito il radicamento dell’Isis. Sebbene un fattore ostativo per il "trasferimento" dello Stato islamico sulla sponda orientale del Mediterraneo potrebbe essere costituita dalla particolare connotazione etnica e tribale della Libia, dalla necessità di mantenere un grado minimo di ordine per mantenere a regime lo sfruttamento delle risorse energetiche nazionali, Daesh (termine arabo per indicare lo Stato Islamico, ndr) sembra stia guadagnando il supporto di alcuni gruppi presenti sul campo».

Come?
«Sta facendosi forza dell’incapacità dei governi di Tobruk e Tripoli di raggiungere un accordo e della sempre maggiore disaffezione della popolazione nei loro riguardi. La Libia, inoltre, fa gola allo Stato Islamico per le potenzialità economiche che potrebbero essere sfruttate da un’organizzazione criminale: dalla gestione dell’immigrazione clandestina, al traffico di armi o di droga. Non a caso proprio dalla città di Sirte, il feudo libico del Daesh, è giunta l’ultima sconcertante notizia della decapitazione di una donna marocchina accusata di stregoneria a opera della locale Corte islamica».

Aumenta, così, anche il rischio di attentati in Italia?
«Naturalmente, la prossimità geografica renderebbe più semplice infiltrare cellule terroristiche in Europa. Allo stesso modo il consolidamento di Daesh nelle città della costa libica potrebbe rappresentare un pericolo anche per il traffico navale nel Mediterraneo, costituendo una minaccia per il commercio mondiale. Ad ogni modo, non legherei la possibilità di aumento del rischio di attentati nel nostro Paese semplicemente alla possibilità di avvicinamento della catena di comando dell’organizzazione, anche perché non sappiamo su quali forze effettive potrà contare l’Isis in Libia. Non sappiamo neppure se ci saranno ancora governi, o settori di governi, disposti a sostenerne le azioni criminali».

Al di là delle ipotesi, quali sono i motivi concreti di allarme?
«Di sicuro, vista la capacità dimostrata dall'Isis di creare una sua narrativa sullo scontro politico in atto attraverso una campagna mediatica molto efficace, credo che aumenterebbe sicuramente quello che forse in Italia è il pericolo più consistente: la volontà di emulazione delle azioni degli uomini di al-Baghdadi da parte di gruppi di estremisti islamici presenti in Italia, ma non ancora direttamente collegati ad essi».

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