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Aragona: serve un accordo con la Turchia per scovare jihadisti tra i rifugiati

ROMA. «Se si vuole minimizzare il rischio che tra i rifugiati ed i migranti economici si annidino jihadisti, cercare l’intesa con la Turchia è opportuno», annota il presidente dell’Istituto per gli studi di Politica internazionale, Giancarlo Aragona. «Ma l’Europa deve provvedere a rafforzare la cintura esterna dell’area Schengen. Non si può consentire che singoli Paesi come l’Italia o la Grecia siano lasciati a fronteggiare l’emergenza in solitudine», chiosa l’ambasciatore.

Presidente, l’Europa prova a contenere il flusso migratorio, anche alla luce di rischi di infiltrazioni jihadiste. È la strada giusta?

«Innanzitutto, occorre fare una netta distinzione tra il problema dei terroristi e quello dei rifugiati. Non c’è dubbio: qualche rischio di infiltrazioni jihadiste tra i profughi sussiste e va contrastato. Ma, al di là di un’intesa con la Turchia per rallentare il flusso dei rifugiati, l’Europa deve risolversi a rafforzare le frontiere esterne dell’area Schengen, piuttosto che puntare a misure che mirino a limitare la circolazione al proprio interno. Nessun Paese, né l’Italia né la Grecia, devono essere lasciati da soli a fronteggiare l’emergenza in solitudine. Occorrono beni, strumenti e risorse comuni, e sforzi diplomatici e di cooperazione più intensi con Paesi africani, Libia e Siria. Le operazioni di polizia non sono sufficienti. Il contenimento delle migrazioni passa anche da un’indispensabile azione, sorretta da una visione condivisa, di consolidamento istituzionale e sviluppo economico dei Paesi da cui provengono i migranti delle diverse categorie».

È allo studio degli esperti Ue, un protocollo anti-radicalizzazione. Può funzionare?

«Su questo piano l’Europa può fare molto: non dimentichiamo che gli attentatori di Parigi avevano passaporto europeo. Ha fatto bene dunque il nostro presidente del Consiglio a parlare di cultura: vi è un problema di sradicamento culturale e bisogna pensare a modelli di integrazione più efficaci. Come insegnano le vicende parigine, il forte disagio sociale ed economico che si respira nei ghetti rappresenta per i giovani emarginati una formidabile esca. Le spire del radicalismo del Daesh si recidono anche con azioni in questo campo».

Onde limitare i rischi, l’Europa studio lo stoccaggio dei dati sensibili di tutti i passeggeri in un unico database. Servirà?

«Di fronte a eventi eccezionali, i cittadini europei dovranno abituarsi, anche in Italia, a subire limitazioni della libertà e della privatezza, in nome di ragioni di sicurezza. Ma misure di questo genere, specialmente se dovessero in qualche caso sospendere garanzie costituzionali, vanno intese come rimedi estremi da adottare per brevi periodi. L’obiettivo dei jihadisti è anche stravolgere i modelli di convivenza dei Paesi che vogliono attaccare. Prolungare troppo lo stato di emergenza, concederebbe ai terroristi del Daesh l’illusione di poter vincere».

Nella guerra all’Isis si registrano prove di avvicinamento tra Hollande e Putin. Che ne sarà di Assad?

«Francia e Russia sono accomunate dalla necessità di dare una forte risposta dopo gli attentati subiti a Parigi e al velivolo partito dal Sinai. Ma le posizioni di Mosca e Parigi restano molto lontane. Putin mira a preservare Assad, in quanto il presidente siriano fornisce garanzie per un forte ruolo russo nella regione e copertura politica all’intervento militare. Di concerto con l’Europa, Hollande guarda invece a Bashar come ad un dittatore che ha represso con metodi violenti la maggioranza sunnita del Paese, schiacciandola ad opera della minoranza sciita alawita. Dare l'impressione che Bashar possa rimanere al potere alimenterebbe la rivolta dei sunniti e faciliterebbe la presa di Daesh: piuttosto che stare sotto la ferula di Bashar El Assad, si lascerebbero sedurre dalle insegne del radicalismo jihadista».

È armare i sunniti moderati, come fece Petraeus nel 2006, l’unica maniera di indebolire l’Isis?

«Combattere Daesh deve coinvolgere in prima linea, e più di quanto sia avvenuto sinora, il fronte islamico in tutte le sue filiere al momento molto divise. A queste divisioni si aggiungono contrasti tra i paesi della regione, per non parlare delle differenze, già ricordate, tra paesi come Usa e Russia, più distanti ma non per questo meno influenti. Un ruolo chiave è quello della Turchia, la cui politica sembra dettata soprattutto dalla questione curda. I curdi sono un efficace strumento nella lotta contro il Daesh. Ma Ankara teme un loro eccessivo rafforzamento. È anche per queste ragioni che creare una cornice favorevole a una soluzione condivisa è compito arduo».

E ciò complica l’intervento militare di terra contro l’Is. In fondo ha ragione l’Italia, a prendere tempo?

«Attualmente non si parla di interventi di terra, anche se non è difficile prevedere che prima o poi se ne discuterà. La posizione assunta dal nostro Paese mi sembra di buon senso ma ci fa correre il rischio di apparire reticenti e marginalizzarci. A questo bisogna prestare molta attenzione. D'altro canto, l'Italia non lesina sforzi in Iraq, in Libano etc. Pertanto, la base territoriale del Daesh, deve essere eliminata ma a questo sforzo militare debbono concorrere i paesi islamici per non farne una crociata occidentale contro l'Islam. È necessario al contempo ricordare che Daesh riempie dei vuoti nei paesi in crisi: Siria, Iraq, Libia, oltre che in alcuni zone dell'Africa sahariana. Porre fine al cosiddetto Stato islamico, significa cercare di riportare ordine e pace in Siria, consolidare l’Iraq e risolvere la crisi in Libia ove i terroristi potrebbero facilmente estendere la loro presenza».

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