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Tirinnanzi: lo Stato islamico non arretra e oggi controlla 8 milioni di persone

PALERMO. Una guerra, molti fronti. I confini dello Stato Islamico mutano praticamente ogni giorno: «E soprattutto in Siria la situazione è volatile come la mappa delle conquiste», afferma Luciano Tirinnanzi, direttore della rivista di geopolitica «LookOut News».

L’Isis non sembra troppo impensierito dai raid russi e siriani, né tantomeno dai cacciabombardieri della «Coalizione dei Volenterosi» a guida Usa. Ormai consolidato il dominio del Califfato su una vasta parte del territorio?
«Possiamo calcolare che oggi lo Stato Islamico si estenda su un’area compresa fra i 150 mila e i 200 mila chilometri quadrati. Poco meno dell’Inghilterra, ma bisogna considerare che molte aree sono desertiche. Soprattutto, però, va ricordato che controlla una popolazione stimata in 7 o 8 milioni di persone. Non è facile indicare confini, tuttavia vi sono alcune certezze».

Quali?
«Innanzitutto, quella costituita dal fatto che il Califfato sin dal 2014 ha concentrato tutti i suoi sforzi intorno all’antica Mesopotamia, in particolare lungo l’Eufrate in Siria e lungo il Tigri in Iraq. Ciò si spiega con due semplici ragioni: perché quelli sono tra i territori più fertili e commercialmente più ricchi, da qui infatti passano molte “pipelines”, e perché sono a maggioranza sunnita».

L’Iraq, da un lato. La Siria, dall'altro. Quali sono gli attuali scenari del conflitto?
«Per quanto concerne il versante iracheno, si può dire che l’avanzata dell’Isis si sia arrestata e oggi si combatte per lo più per conservare i territori conquistati, che corrispondono precisamente alle aree di confessione sunnita. Eccezion fatta per Baiji, la raffineria forse più importante del Paese, di certo cruciale per l’Isis, dove si combatte ancora per il suo controllo. In Siria, invece, il fronte caldo è intorno ad Aleppo e qui lo Stato Islamico dimostra di avere ancora capacità offensive. Per il resto, anche qui la situazione fotografa una certa tendenza alla stabilizzazione. D’ora in avanti, perdere o conquistare villaggi non modificherà il fatto che la Siria e l’Iraq non esistono più».

Ramadi, la più importante conquista dello Stato Islamico in questi ultimi mesi?
«Oltre a Mosul e Raqqa, le due capitali del Califfato, per l'Isis aver preso Ramadi è certo il più grande risultato della guerra. Un generale statunitense si è spinto a dire che per riconquistarla ci vorrebbero molti anni. Anche se mi pare un'esagerazione, è vero che allo stato attuale le forze irachene non sono affatto in grado di riprenderla. Le prossime battaglie, dunque, si combatteranno per collegare le città occupate che, altrimenti, rimarrebbero isolate e minerebbero l’affermazione del Califfato».

E Palmira, con il suo sito archeologico che ormai sopravvive solo nelle vecchie foto dei turisti?
«La presa di Palmira in Siria va in questa direzione: è un punto strategico per collegare la strada che conduce al valico di confine iracheno di Al Qaim controllato dall'Isis e che porta dritti a Ramadi, sviluppandosi lungo l’Eufrate, mentre in Siria può condurre tanto a Damasco quanto a Homs, teorici obiettivi del Califfo oggi in mano ai governativi».

La città-martire di Kobane è ormai del tutto libera dall'incubo jihadista?
«Direi proprio di sì. Lo Stato Islamico vi ha riversato non poche forze qui, ma solo come obiettivo simbolico, per far arretrare i curdi e controllare un valico in più con la Turchia, da dove riceve rifornimenti. Da quando però il Califfo ha in mano Jarabulus, sempre sull'Eufrate, non ha più bisogno di Kobane. Da notare, però, che contemporaneamente allo sgretolarsi di Siria e Iraq, c'è anche la nascita di un altro stato, antitetico al Califfato: il Kurdistan. Mentre i sunniti vogliono dominare le aree dove rappresentano la maggioranza etnica, anche i curdi si stanno ritagliando un proprio spazio, con lo stesso obiettivo. La guerra tra curdi e Stato Islamico finirà quando entrambi avranno soddisfatto le proprie esigenze di un'espansione territoriale che corrisponde alle rispettive aree di appartenenza».

Malgrado sia stata ripetutamente annunciata come imminente, la riconquista di Mosul — il centro più ricco e popoloso del regno di Abu Bakr al Baghdadi — resta sempre una chimera?
«Mosul è perduta, come del resto tutto l’Iraq del nord. Chi dovrebbe lottare per riprenderla? Gli Stati Uniti? E per farne cosa? Sarebbe un gran colpo ma un'avventura militare insensata che solo i curdi potrebbero voler conquistare. Nessuna città è inespugnabile, certo. Dovremmo, però, abituarci all'idea di un nuovo assetto regionale, dove i Paesi che eravamo abituati a chiamare Siria e Iraq non esisteranno più. Al loro posto, una sorta di "Sunnistan", "Kurdistan" e "Shiitenstan" con rispettive capitali. Mosul lo è per il Califfato e non a caso è qui che è comparso per la prima volta Al Baghdadi».

Quindi?
«Questa guerra ci racconta di una nuova e importante divisione territoriale di tipo etnico-confessionale che mette la parola fine alle mappe disegnate all'inizio del Novecento dagli imperi coloniali europei. A Baghdad questo lo sanno bene. Il vaso di Pandora è stato aperto, tornare indietro è impossibile e forse non ha nemmeno senso. I primi a capirlo sono stati i russi, che difatti non attaccano lo Stato Islamico, ma puntano a mettere in sicurezza il cosiddetto "Alawistan", le aree costiere della Siria che appartengono agli sciiti alawiti, e dove Mosca ha interessi reali».

Resiste l’alleanza dei miliziani con i clan tribali, decisivi per la diffusione del «virus Isis»?
«I clan tribali rispondono solo a loro stessi. È una caratteristica che accomuna da sempre le tribù. L'esempio più lampante è in Libia: senza un loro assenso, il paese non tornerà mai unito e, al momento, non mi pare che i capi clan propendano per questa soluzione. Ma non c’è mai stata una vera e propria saldatura con gli jihadisti, solo una temporanea convergenza d’interessi che difficilmente andrà più in là di quanto si sia già spinta».

Damasco è stata messa in sicurezza dall'intervento di Putin. Quanto, invece, i «tagliagole» sono distanti da Baghdad?
«Damasco e Baghdad non rischiano di cadere. Nessun esercito mediorientale ha la forza militare necessaria per sfondare in una città come Damasco che, certo, è più a rischio di Baghdad. La capitale irachena è attraversata ogni giorno da attentati dinamitardi. E non si contano più gli episodi di criminalità comune. Ramadi è molto vicina, ma Baghdad resta inespugnabile per chiunque: neanche gli americani, ad esempio, riuscirono a entrare a Sadr City, il quartiere roccaforte sciita saldamente in mano alle "brigate del Mahdi" di Moqtadr al-Sadr, che peraltro non sono state mai disarmate».

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