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Crollo di Genova, prima le colpe poi i colpevoli

Un sano e rassicurante pragmatismo. In cui buonsenso e saggezza prevalgano su emotività e sensazionalismo. Ce lo aspettiamo sempre da chi è chiamato a ricoprire ruoli di gestione e coordinamento. Tanto più se quei ruoli determinano le sorti di una collettività, nelle strategie, nelle scelte, nelle decisioni. Ce lo aspettiamo a maggior ragione da chi quella collettività è chiamata democraticamente e politicamente a governarla.

Specie nell’era del tranciante giustizialismo via social e all’indomani di una intollerabile tragedia di cui non sono ancora chiari nemmeno i contorni. Figurarsi le precise, assodate e definite responsabilità.

E invece? Invece succede che mentre si cerca ancora fra le croste di asfalto e calcestruzzo precipitate su Genova e sulla credibilità dell’intero sistema Italia, assistiamo, fra incredulità e sconforto, a uno sgangherato e approssimativo processo popolare nel quale protagonisti da Santa inquisizione sono proprio coloro che tutto ciò dovrebbero scongiurarlo.

Non sappiamo ancora neanche quanta gente c’è ancora sotto quelle macerie (è normale che non si abbia ancora un computo preciso dei dispersi?), eppure il governo ha già deciso che Autostrade per l’Italia è il male assoluto e come tale va mandata al rogo.

E la magistratura? E le inchieste giudiziarie? E lo stato di diritto? Passa perfino in secondo piano il rapporto contrattuale che lega il consorzio al ministero dei Trasporti e che buttato così sbrigativamente a mare provocherebbe uno tsunami da decine di miliardi di euro sulle casse statali.

Auspichiamo, anzi esigiamo, risposte precise e inconfutabili sulle responsabilità e le colpe. E, in base a quelle, i nomi dei colpevoli. Lo pretendiamo da chi è chiamato per ruolo e competenza ad accertare le prime e i secondi. Da nessun altro. Tanto meno da chi lancia proclami e trova sponde incrociate in polemiche assurde al rimpallo.

Di Benetton sponsor elettorale di Tizio o Caio o degli allarmismi in Borsa francamente ci importa poco. Nulla, anzi. Demagogia e populismo foraggiano il tronfio ego di chi cerca consenso facile e architetta crociate speculative. Intorbidendo più o meno consapevolmente le acque della verità. E, con esse, l’improcrastinabile avvio del cammino verso le soluzioni, quello sì parallelo e non successivo all’identificazione delle colpe. L’alternativa, spesso pilatescamente battuta, è la paralisi assoluta.

Ci siamo abituati del resto. In questi giorni è in atto il solito giochetto della psicosi di massa. Sopralluoghi ferragostani in giro per l’Italia, relazioni ad alzo zero rispolverate e tirate fuori dai cassetti su ponti traballanti e viadotti scricchiolanti, propaganda generalizzata fra l’allarmismo e lo strumentale. E alle nostre latitudini scopriamo paradossi e assurdità che lasciano annichiliti.

L’atroce tragedia consumatasi a Menfi e costata la vita a un bimbo di soli 7 anni, non ha la stessa densità della catastrofe di Genova, ma ne condivide la genesi: strade tenute in piedi non si sa come o rattoppate alla bell’e meglio, sulle quali la sicurezza è una scommessa al buio con la sorte.

Perché poi salta fuori sempre che manca qualcosa: i progetti ma non i soldi, i soldi ma non i progetti, i nulla osta, perfino i firmatari di pareri e relazioni. Un patchwork di inefficienze che fatalmente spesso finiscono per presentare un salatissimo conto in termini di vite umane. E dopo si scatena la caccia alle streghe. Un incontrollato tutti contro tutti che innalza una cortina di fumo drammaticamente densa, quasi quanto quella tragica che copre da tre giorni un pezzo di Genova e dei suoi morti. Quei - non si sa ancora neanche quanti - inammissibili morti.

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