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Nomine Rai, un paradigma che si perpetua

Marcello Foa e Fabrizio Salini

Giunse alfin il momento delle nomine Rai. Puntuale e immancabile come il giorno dopo la notte, come la quiete dopo la tempesta. Come un governo dopo un altro. Col suo solito stizzoso e stucchevole gioco ad incastri di equilibri e ripicche, polemiche e vendette.

E in barba alle verginelle delle italiche cose, convinte che i nuovi venti pentaleghisti che soffiano sul Paese potessero ripulire l’aria che si fa torbida sui tetti di viale Mazzini ad ogni riassetto degli equilibri di potere politico nazionale.Perché il teatrino cui si sta assistendo è sempre lo stesso, uguale, identico. La Rai, una delle più grandi aziende di comunicazione d’Europa, il quinto gruppo televisivo del continente, è storicamente il paradigma sommo della lottizzazione politica e dell’occupazione partitica.

E non sfugge a questo assioma neanche la via delle designazioni scelta dall’esecutivo gialloverde. Quello cioè che aveva annunciato di voler abbattere gli steccati del vecchio sistema di governo della cosa pubblica=cosa loro (declinata alla terza persona plurale, chè alla prima richiamerebbe scomodissime assonanze). E che invece, perché così non poteva che essere – lo sappiano le suddette verginelle – quello steccato si è semplicemente limitato a scavalcarlo. In una fisiologia di comportamenti e di procedure che non risparmia nessuno.

Ecco perché se da un lato non ci sorprende la conferma di un certo andazzo, anche da parte di chi giurava moralizzazioni copernicane, dall’altro appare ipocrita il dagli allo scandalo da parte di chi la pista di quell’andazzo l’aveva battuta ai tempi in cui il consenso elettorale pendeva dalla propria parte.

Anche perché – al netto delle chiacchiere – chi dovrebbe poi mai essere l’organo rigorosamente terzo e super partes che possa fare valutazioni e scelte dettate unicamente da criteri di competenza? Se i componenti del cda della Rai – società per il 99,6 per cento in carico al ministero dell’Economia – sono indicati dalla compagine di governo, non bisogna far finta di sorprendersi se le scelte vanno in una certa specifica direzione, in cui la competenza si mescola fino a confondersi con l’appartenenza.

Altra cosa sono i sotterfugi e le prove di forza. Perché se il no della commissione di vigilanza alla presidenza Foa – nome marchiato da Salvini in persona – è legislativamente vincolante, la via di fuga che il leader della Lega vorrebbe adottare, il ricorso cioè al cavillo del presidente anziano, è corretto per forma ma inopportuno per sostanza. Non a caso, ecco la frenata di Di Maio e il rinvio a oggi delle nomine nel cda. E le conseguenti nuove fibrillazioni interne alla maggioranza, con la Lega che non riesce poi a liberarsi dell’ex alleato scomodo Forza Italia e a sua volta ne addita il presunto crescente feeling col Pd.

Insomma, eccolo qui il balletto della politica, a cui invece stentiamo ad abituarci. In un Paese in cui il pubblico rimane preponderante, se non straripante, proprio l’ingerenza dei partiti su scelte che dovrebbero essere fatte in un’ottica imprenditoriale compromette inevitabilmente ogni visione laica in materia di sviluppo e prospettiva. Del resto, mamma Rai rimane ancora particolarmente generosa, se è vero che a fronte di ricavi per circa due miliardi e mezzo annui, il solo costo del personale sfiora i 900 milioni di euro. Possono, numeri del genere, non solleticare la voglia perpetuata di tenere il cappello su quelle poltrone? Altro che utopia privatizzazione. Di tutto, di più. Purché pubblico. Cioè politico.

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