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Il Cavaliere e il «bicameralismo perfetto»

Sarebbe sbagliato liquidare la denuncia di Berlusconi della impotenza della presidenza del Consiglio a introdurre in Italia le necessarie riforme come un maldestro tentativo di scaricare su altri le sue responsabilità. Il problema è reale, ha le sue radici nella Costituzione ed è già stato sollevato molte volte, nella prima come nella seconda Repubblica. Oggi esso è reso più acuto, e nello stesso tempo più difficilmente risolvibile, da una serie di circostanze avverse che il premier si è limitato a elencare, ma che meritano una disanima più approfondita.
Berlusconi ha cominciato mettendo sotto accusa il nostro «bicameralismo perfetto», per cui ogni disegno di legge deve essere esaminato e approvato da entrambi i rami del Parlamento (e se il secondo apporta delle modifiche, necessita di un terzo passaggio), allungando a dismisura i tempi rispetto a quanto accade nelle altre democrazie. E intanto che c'era, ha ribadito quello che gli italiani pensano da sempre: i nostri parlamentari sono troppi, la maggioranza si limita a schiacciare dei bottoni, ma siccome sono loro a dover votare la propria riduzione, non lo faranno mai. Peccato che nel corso degli anni almeno quattro commissioni bicamerali abbiano cercato invano una soluzione, e che nell'attuale infuocato clima politico non sia neppure immaginabile trovarla.
Il passaggio del discorso di Berlusconi che ha destato maggiore scalpore è stato quello riguardante il ruolo del Quirinale: «Se una legge non piace al Capo dello Stato, i suoi uffici sono così attenti e puntigliosi che ce la rimandano indietro». Più che a Napolitano, che certo non è in grado di esaminare personalmente tutta la produzione legislativa, l'attacco sembra rivolto al suo staff, a quell'anonimo e numerosissimo arcipelago di funzionari che gli preparano carte, discorsi, iniziative. Se ricordiamo, come lo stesso premier ha fatto, che gli ultimi tre presidenti della Repubblica sono stati di sinistra, è ragionevole ipotizzare che questo sia anche l'orientamento di buona parte del personale del Colle. Non vogliamo dire, con questo, che essi siano influenzati dalle loro idee; ma rimane il fatto che mai, nella storia della Repubblica, il Quirinale è stato così attivo nel vagliare, anche preventivamente e talvolta ai limiti della norma, i provvedimenti governativi.
C'è stato poi il solito attacco ai magistrati di sinistra: se non gradiscono una legge - ha detto il premier - si rivolgono alla Corte costituzionale che la abroga. Non succederà ogni giorno, ma certamente è successo e succederà ancora. Che vi sia un certo numero di toghe che si contrappongono al governo, è ormai un fatto accertato, e che la Consulta abbia una netta maggioranza di sinistra è un altro. Perciò, Berlusconi ha qualche ragione nel ritenere che i meccanismi previsti a suo tempo dalla Costituzione per garantirci leggi giuste finiscono con il trasformarsi, spesso, in ostacoli all'azione di un esecutivo non gradito a altre parti dello Stato, che finiscono così con il partecipare indebitamente alla lotta politica.
Come un fiume in piena, il Cavaliere ha poi aggiunto alle difficoltà che sta incontrando (e che non riesce a risolvere) il debito pubblico ereditato dai governi consociativi della Prima repubblica, l'alto costo dell'energia dovuto al ripudio del nucleare, i ritardi nelle infrastrutture, l'oppressione burocratica della pubblica amministrazione, i tempi impossibili della giustizia. Tutto verissimo. Ma, per un presidente del Consiglio, per un uomo che ha governato (o meglio, tentato di governare) l'Italia da tanti anni, sfogarsi non basta. Per quanto gli ostacoli siano immensi, deve cercare, nei tre anni di legislatura che gli rimangono, di prenderli di petto, di accelerare i tempi, insomma, se tale deve essere considerato, di tagliare il nodo gordiano. È perché si aspetta questo che la maggioranza degli italiani gli sta, nonostante scandali e processi, ancora accordando la sua fiducia.

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