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Anche Gheddafi comincia a tremare

Siamo ancora ben lontani dalle manifestazioni oceaniche che hanno abbattuto prima Ben Ali in Tunisia e poi Mubarak in Egitto, ma anche Gheddafi comincia a tremare. Lo strettissimo controllo che il colonnello esercita sui media non consente di valutare appieno la portata della "Giornata della rabbia", lanciata anche qui attraverso Facebook e Twitter, ma un primo, parziale bilancio consente di affermare che la rivolta popolare che sta scuotendo il mondo arabo e in queste ore sta facendo vacillare i governi dello Yemen e di Bahrein ha contagiato anche la Libia: tra mercoledì e giovedì sembrano accertati almeno 21 morti e 50 feriti (tutti, peraltro, in Cirenaica, tra Bengasi e Al Baida), centinaia di arresti e un appello per le dimissioni di Gheddafi firmato da 213 personalità libiche, neppure tutte in esilio. Sembra anche accertato che, almeno a Bengasi, la polizia ha fatto fuoco sulla folla. Nonostante questo, la TV di stato si è limitata a mostrare una dimostrazione a favore di Gheddafi, l'uomo al potere da ormai 42 anni, che è anche sceso brevemente in piazza a salutare i suoi sostenitori.
Le manifestazioni hanno origini simili, ma non identiche a quelle che hanno sconvolto gli altri Paesi del Magreb: anche in Libia a guidare la rivolta sono i giovani della "generazione Internet", non più disposti a tollerare un regime che soffoca ogni libertà; anche in Libia c'è (secondo cifre ufficiali del 2009) una disoccupazione al 20 per cento e un forte scontento per la corruzione e il crescente divario tra ricchi e poveri. Nelle dimostrazioni c'è sicuramente una componente islamica, visto che uno degli slogan ascoltati su Youtube era: «Muammar (Gheddafi) è il nemico di Allah».
Ma, grazie alla rendita petrolifera e alla scarsa popolazione (6 milioni), il Paese ha un reddito pro-capite quattro volte superiore a quello egiziano, tanto che per arginare il dissenso Gheddafi ha potuto raddoppiare d'un colpo gli stipendi degli statali senza fare saltare il bilancio. Inoltre, il suo controllo del Paese, grazie ai Comitati rivoluzionari e a un imponente apparato poliziesco, è molto più stretto di quello su cui potevano contare i presidenti deposti. Il dissenso, oltre tutto, è molto più forte in Cirenaica, tradizionalmente turbolenta e ostile al regime, ma distante più di mille chilometri dalla capitale.
Per tutte queste ragioni, il colonnello non sembra in immediato pericolo di essere cacciato e questa situazione si riflette nell'atteggiamento delle cancellerie occidentali. Infatti, mentre nel caso dell'Egitto Obama si era schierato a favore di un cambiamento immediato, nel caso della Libia si è limitato a esortare il regime ad ascoltare la voce del popolo. L'Europa, dal canto suo, non si è ancora pronunciata, e anche l'Italia si è attenuta a un prudente riserbo. Nessuno ama particolarmente Gheddafi, considerato tirannico, inaffidabile e ricattatore, ma dopo l'abbandono del terrorismo, la rinuncia alle armi di distruzione di massa, l'apertura alle compagnie petrolifere straniere e, nel caso nostro, il trattato di amicizia e il controllo dell'immigrazione clandestina la Realpolitik suggerisce di aspettare gli eventi prima di offrire una sponda ai dimostranti.
In Libia mancano una classe dirigente alternativa e una opposizione strutturata, il pericolo islamista è ben presente e l'esercito non sembra in grado di esercitare quella funzione stabilizzatrice che cerca di svolgere in Tunisia e in Egitto. La nomenklatura governativa è notoriamente divisa in fazioni, con un'ala conservatrice e una più liberale, che fa capo a uno dei figli del colonnello. Comunque, un dato di fatto è abbastanza rassicurante: chiunque dovesse prendere il posto di Gheddafi dovrebbe continuare a venderci petrolio e metano, perché forniscono il 75 per cento delle entrate dello Stato.

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