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Morto Franco Battiato, ha eliminato barriere tra il pop e la danza sufi

Franco Battiato

Era il 2016 e sulle colline di Pizzo Sella nasceva una sede del centro Muni Gyana in una villa confiscata alla mafia. Ma l’attesa, tra tanti fiori e altrettante tonache arancioni, era tutta per Franco Battiato. Che quando scese dall’auto e vide i giornalisti assembrati – allora si poteva – sembrò disorientato, di certo infastidito. E iniziò a rispondere alle domande in maniera svagata, spezzata.

Stava già male, ma quando si rifugiò in cucina per un caffè, sembrò tornare attento, vivo. E accarezzava i fiori, ogni corolla che aveva accanto. Franco Battiato era un uomo gentile, scontroso, profondamente artista, conscio del suo essere e nello stesso tempo, quasi intimidito: negli anni Ottanta ci si divideva equamente tra chi lo amava e chi no.

Eppure la sua musica ha cucito amori, scaraventato questioni, scelto parole, eliminato barriere tra il pop e la danza sufi, ma è solo un esempio: ogni concerto andava esaurito in poco, persino la sua breve parentesi burrascosa da assessore regionale, chiamato da Crocetta, era finita per l’impossibilità di racchiudersi in uno schema.

E adesso che la notizia della morte del musicista è balzata fuori dal buen retiro di Milo (il castello di famiglia dei Moncada), in tanti si chiedono se nei cassetti sia rimasta ancora musica, di quella bella, originale, da capopopolo.

Difficile saperlo: negli ultimi anni, da quella brutta caduta che lo aveva allontanato dal palcoscenico, ma ancor più per la malattia, mai realmente confermata, Franco Battiato aveva annullato impegni e quello che è ora il suo ultimo pezzo – “Torneremo ancora”, una ballad registrata con la Royal Philarmonic Concert Orchestra diretta dal fido Carlo Guaitoli, a capo di un album di pezzi del passato – resta come un sospiro leggero sul tema del passaggio che, almeno questo si sa con certezza, lo affascinava parecchio. Il resto resta dietro un paravento della famiglia che nei mesi lo ha avvolto come una cortina: si sa che è morto stamattina presto, dopo le 5, e che i funerali saranno in forma privata.

Cinquant’anni sul palco, comunque, senza mai scenderne:  da quel suo primo contratto discografico ottenuto grazie al suo grande amico Giorgio Gaber che tra l'altro, insieme a Caterina Caselli ha ospitato, nel 1967, il debutto tv di Battiato (con un giovane Guccini), al programma “Diamoci del tu”.

Aveva 22 anni – era nato nel 1945 a Riposto che nel primo dopoguerra si chiamava Ionia – ed era arrivato da tre anni a Milano, dopo la morte del padre. Al Club 64 apre le serate con canzoni pseudosiciliane, conosce Renato Pozzetto, Paolo Poli, Enzo Jannacci, Bruno Lauzi e ovviamente Gaber a cui affida “E allora dai” che arriverà a Sanremo.

L’amico in cambio lo segnala alla Jolly per il contratto: inizia a girare il nome di questo strano siciliano trapiantato che ama Stockhausen, parla di filosofia, sembra un marziano esistenzialista, i primi tempi troppo all’avanguardia. Sono gli anni Settanta, piacciono le sperimentazioni, il teatro esce dai salotti e scende nelle cantine, ma ci sta stretto: Franco Battiato salta staccati, si siede da solo alle prime rudimentali consolle.

“Fetus” viene bloccato, copertina troppo forte, “Pollution” va meglio, elettronica, rock, contaminazioni, pittura e filosofia orientale, ballad e Gurdjieff, mix allucinogeno ma Battiato se ne frega, chi lo conosce impara a seguirlo. Spiazza con le sue risposte, ma ha l’anima divisa in due, da una parte ci sta “Gilgamesh” dall’altra “Cuccurucucù” ne “La voce del padrone”.

Gli album si sovrappongono, solo i fan ricordano “Sulle corde di Aries” del ’73, minimalista ma affiorano già amori futuri per strumenti non convenzionali. Verrà poi “Clic” dedicato proprio a Stockhausen, che contiene “Propiedad prohibida” che diventerà sigla di Tg2Dossier. Inizia a collaborare con Giusto Pio, poi con Milva e con Alfredo Cohen.

Arriva “L’era del cinghiale bianco”e parte l’era Battiato: riferimenti letterari, giochi di parole, frammenti, pastiche e citazioni, filosofia tra le righe, frasi delle canzoni che diventano aforismi. “Patriots” è del 1980 e contiene “Prospettiva Nevski”: popolar music, non necessariamente va capita, ma assorbita, questo sì. “La voce del padrone” è del 1981 con “Centro di gravità permanente”, Rolling Stone lo inserirà tra i 100 album più belli del secolo, “L’arca di Noè”  arriva a 550 mila copie secondo in Italia solo a “Thriller” di Michael Jackson; “Voglio vederti danzare” sorride ai Dervisci rotanti.

Il resto è una corsa: con Alice canta “I treni di Tozeur”, prova il ciber punk, parla di mondi interiori e li sperimenta, nasce la prima opera, “Genesi”, con “Fisiognomica” torna a Milo dove nascono “E ti vengo a cercare” e “Il mito dell’amore”, nel 1989 si esibisce in Vaticano.

Arrivano “Giubbe rosse, Alexander Platz” e “Lettera al governatore della Libia” affidata all’amica Giuni Russo. “Come un cammello in una grondaia” è dei primi anni Novanta come anche “Caffè de la Paix”; nella vita di Battiato entra Manlio Sgalambro, la componente intellettuale si accentua moltissimo e anche la scelta di diventare sempre più solitario, quasi arrabbiato. Gli album si sommano, il pubblico lo adora, ogni esibizione è sempre un evento, ma Battiato è sempre più stanco. E dopo la morte di Sgalambro, anche più solo.

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