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Raz Degan, regista de "L’ultimo sciamano": il mio viaggio alla ricerca della spiritualità

ROMA. «Nessuna pianta può far guarire dalla polmonite o dalla depressione. Neppure l’ayahuasca, che però può indicare la strada per capire se stessi e per migliorarsi. Anche se il cammino verso la guarigione o la spiritualità devi percorrerlo sempre da solo».

E’ ancora il bello e impossibile dello spot in cui diceva «Sono fatti miei» Raz Degan, ex vincitore dell’Isola dei famosi, stavolta autore, regista, direttore della fotografia e co-produttore, assieme a Luca Argentero, Lapo Elkann, John Battsek, Francesco Melzi, Andrea Salvetti, Ran Mor, Ron Rofe, e negli Usa con Leonardo DiCaprio, dell’Ultimo sciamano, documentario che affronta il delicato tema del mal di vivere, della rinascita spirituale e del viaggio che c'è nel mezzo.

Il docu-film (80 minuti) nell’ambito del ciclo Il racconto del reale, andrà in onda stasera alle 21.15 in prima tv su Sky Atlantic Hd e su Sky Tg24 Hd,
disponibile su Sky on demand.

Raz Degan ha lavorato al documentario per cinque anni. «Ho voluto parlare ai giovani di temi poco discussi ma importanti, se è vero che la depressione
è la terza malattia killer nel mondo» spiega. «Io ho scoperto l’ayahuasca nel 2010. In Italia all’epoca ero un attore e conduttore tv di un programma che si
occupava di misteri. Avevo appena finito di girare un film in Tagikistan quando arrivarono gli aerei militari francesi per riportare a casa cast e troupe. Non
volli tornare subito, ma mi feci lasciare solo sulla via della Seta, Tagikistan, Afghanistan Kirghizistan e Cina Occidentale. Volevo percorrerla a piedi, solo,
con nient'altro che una borsa e due videocamera. Sembravo un talebano. Raggiunsi il Nepal e il Tibet e a 4.000 metri presi un brutta polmonite. Stavo
malissimo e con l’ultimo filo di voce rimasto chiamai al cellulare mio fratello che in quel momento si trovava a Goa. Mi disse di raggiungerlo. Mi avrebbe
affidato ad una sciamana che mi avrebbe curato con l’ayahuasca, un potente allucinogeno che io non conoscevo. La sciamana mi diede l’infuso e lo
bevvi per sei notti. Stetti malissimo. Vomitai per tre giorni e ciò mi liberò i polmoni dal catarro. Il terzo giorno correvo sulla spiaggia e gli ultimi giorni
ripercorsi la mia vita dalla nascita, raggiungendo la totalità del mio essere, avvicinandomi a Dio».

«In seguito - racconta ancora - chiamai mia madre, medico con laurea in medicina occidentale, chiedendole di fare la stessa esperienza. Ero curioso di
vedere come avrebbe reagito di fronte a questo modo alternativo di curarsi. Quando vidi i risultati su di lei, che tornò a fare sport e a sorridere, capii che
questa pianta aveva dei poteri e che avrei dovuto farli conoscere al mondo». «Dopo - spiega Raz - venne il tempo di lasciare quei posti alla loro sacralità
e di condividere ciò di cui ero stato testimone e che avevo sperimentato io stesso. Sono andato alla foce del fiume Ucayali e ho incontrato la tribù Shipibo,
ed è così che è iniziata la mia avventura con The last shaman».

«Il protagonista del viaggio - conclude Raz - è James Freeman, 22 anni, studi ad Harvard e sogni di un futuro in politica. Fino a quando non gli viene
diagnosticata una depressione cronica che mina le sue certezze e lo spinge a tentare il suicidio. E’ allora parte per l’Amazzonia alla ricerca di uno
sciamano che possa guarirlo. James arriverà a isolarsi per cinque mesi nella foresta tropicale del Perù dove scoprirà le proprietà allucinogene
dell’ayahuasca e tanti digiuni e crisi, realizzerà che la soluzione per la riconquista della propria vita non può che provenire da se stesso».

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