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Avatar, capolavoro non solo di grafica

Il film di Cameron è il più alto esempio di ciò che può fare il computer in cinematografia. Ma è perfetta anche la sceneggiatura

Un film al di là delle aspettative il progetto decennale di Cameron, l’attesissimo Avatar. Il più alto esempio, fino ad ora uscito nelle sale, di ciò a cui può arrivare la computer grafica. La realizzazione in motion capture è magistrale, grazie soprattutto alla preparazione atletica e recitativa degli attori. La grafica virtuale è mozzafiato e dà vita ad un’architettura digitale onirica quanto realistica, talmente perfetta che sin da subito ci si dimentica di assistere ad un’opera interamente riprodotta al computer. A dispetto però della tecnica di animazione per cui da mesi una martellante campagna mediatica lo eleva a fenomeno cinematografico, Avatar è un piccolo capolavoro soprattutto per i contenuti della sceneggiatura ed il modo in cui vengono dati al pubblico. L’ambiente, l’intolleranza, il razzismo, il potere, il capitalismo, Cameron ha voluto raccontarli attraverso la canonica struttura della favola, cosa che lo ha portato ad essere tacciato di poca originalità, scelta invece che premia la sua bravura. Perché grazie a questa formula il regista ha potuto portate in scena le emozioni, forti e tangibili, a cui la titanica impalcatura che le contiene, la più costosa della storia del cinema, non fa che da semplice sfondo. E si tratta della formula/modello più antico, quello dell’iniziazione, della morte e della rinascita. Puntare sul comparto emotivo è il marchio stilistico del regista, ma rispetto a Titanic firma l’opera in modo decisamente più incisivo. Certo una scelta facile verso il successo al botteghino però questa volta totalmente diversa dall’impronta stucchevole che ha caratterizzato il colossal precedente, perché il regista decide di farla in modo equilibrato e sapiente. Così che sembra di assistere ad una lezione di vita, che mette dinanzi alle coscienze il grado di involuzione a cui è arrivata l’Umanità, e a cui non ci si può sottrarre. Tanto Cameron costringe lo spettatore a “vedere”, così come la co-protagonista Neytiri fa con Jake Sully. Sì perché è questa la capacità sensitiva che ha perso l’uomo, lo strumento per entrare in empatia con tutto ciò che lo circonda. Perso questo, il conto da pagare non è che distruzione e perdizione della propria identità, che ha valore solo in quanto facente parte di un tutto. Una visione amara e critica sulla condotta della civiltà odierna, sulle politiche economiche e di guerra. Anche la ricchissima simbologia della pellicola sottolinea le riflessioni che stanno dietro al film e ne da una chiave di lettura. I riferimenti al mondo mitologico sono tanti ed incastonati in modo esemplare, a partire dal nome stesso del pianeta su cui si svolge la storia, Pandora. Film da vedere, non soltanto per il godimento visivo e adrenalinico ma per la possibilità che dà allo spettatore di soffermarsi e di farsi un esame di coscienza.

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