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Mario Francese, Daniele Billitteri: «Così andarono le cose in quegli anni»

Mario Francese

Non vedrò la fiction su Mario Francese. Non ho visto quella su Libero Grassi, non ho visto quella su Boris Giuliano. Chi è stato dentro i fatti diffida dalle imitazioni. Ma quello che si sente in giro suggerisce che forse vale la pena spendere qualche parola. In generale.

Sarebbe sbagliato, infatti, decidere che nella vicenda ci sono l’Antimafia e le inoppugnabili carte processuali e dall’altra i cattivi, Giornale di Sicilia compreso.

1. Mario Francese fu un signor giornalista. Sapeva le cose, sapeva valutare le notizie che riceveva al Palazzo di Giustizia. Pensava che non c’è vestito pulito che possa far scambiare un cattivo per un buono. Forse non teneva in gran conto le sfumature ma era un cronista generoso. Io andai a lavorare al Giornale di Sicilia il 1 dicembre del 1979, dieci mesi dopo la sua uccisione. Ma lo conoscevo bene perché, entrambi cronisti di nera e giudiziaria, ci incontravamo spessissimo sui fatti. Lo ricordo come una persona gentile e generosa. Se c’era da dare una mano non si tirava indietro. Nel “club” della cronaca nera era, giustamente, molto stimato.

2. La fine degli anni Settanta aveva già cominciato a raccontare che di mafie ce n’erano almeno due. E che si facevano la guerra. Nel 1977 a Ficuzza era già stato ucciso il colonnello Ninì Russo, nel 79 toccò a Francese, il 9 marzo al segretario provinciale della Dc Michele Reina, il 21 luglio dello stesso anno a Boris Giuliano, capo della Mobile, per l’Epifania degli 1980 venne ucciso Piersanti Mattarella. Nel maggio toccò a Emanuele Basile, capitano comandante la compagnia dei carabinieri di Monreale. Il 1981 avrebbe fatto contare 151 omicidi, delitti passionali esclusi. Tutto questo non fu senza conseguenza. La strategia terrorista dei cosiddetti corleonesi avrebbe portato Cosa nostra all’attacco contro qualsiasi cosa intralciasse l’ascesa dei vincenti, fossero altri mafiosi, fosse Dalla Chiesa, fosse La Torre. Ma ci furono altri effetti: la legge Rognoni-La Torre, che si mostrò fondamentale per la lotta alle cosche perché colpiva i patrimoni, e la legislazione “premiale” che incoraggiò il fenomeno del “pentitismo” avviato da Tommaso Buscetta. In ogni caso furono anni di enorme sconvolgimento che rendono inefficace qualunque criterio di approccio manicheo e pregiudiziale. Diceva Einstein che non ci sono risposte facili per domande difficili. Aveva ragione.

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3. Il Giornale di Sicilia. Ci ho lavorato per 33 anni. Fui chiamato dall’allora direttore Lino Rizzi, democristiano fanfaniano. Io ero comunista con tanto di tessera in tasca. Venivo da dieci anni di giornale L’Ora e per me il “Sicilia” era il giornale del “nemico”. Ma furono loro a cercarmi: per una serie di ragioni che sarebbe lungo raccontare, erano a corto di cronisti di nera e io, senza falsa modestia, ero già una “firma” nel mio piccolo. Insomma, sul mercato valevo qualcosa. Non ho mai avuto modo di dovermi lamentare né di Lino Rizzi né del direttore che lo sostituì, Fausto De Luca. Il giornale aveva sempre avuto una linea moderata. Dava voce, diciamo così, alla borghesia palermitana, quella del commercio e delle professioni liberali. Sapeva di notabilato e, di norma, era “governativo”. Ma farne l’organo ufficiale di Cosa nostra mi sembra esagerato e ingeneroso per quelli che lavoravamo lì, compresi i molti “ex” del giornale L’Ora. Tante cose sono state raccontate in un modo ma potrebbero esserlo in un altro.

Per esempio: il commendatore Federico Ardizzone, padre di Antonio, era socio del Tiro a Volo dove c’era pure Michele Greco, quello che poi si sarebbe scoperto essere il “papa” di Cosa Nostra dove però contava molto meno di quanto farebbe pensare la sua “nciuria”. Ma il Tiro a Volo non aveva solo quei due soci. Ce n’erano altri. Vogliamo guardare la lista? Tutti collusi? Non c’è dubbio che la borghesia palermitana navigava in un mare ambiguo e ambivalente per storia, appartenenza, sintonia di interessi, solidarismo nella necessità. Una cosa che somiglia molto alla massoneria senza essere una vera loggia. Collusi col boss Masino Spadaro? Il Giornale di Sicilia è in via Lincoln 21, Masino Spadaro abitava al numero 19, stesso edificio. Lo stesso dove abitava anche Rosario Nicoletti, esponente della sinistra Dc, ex segretario regionale del partito. Colluso anche lui? Spadaro lo incontravamo sempre al bar Rosanero. Lui ci conosceva tutti. Al maxiprocesso restò famoso l’episodio che lo riguardò. Il primo giorno, appena entrati i detenuti nella “gabbia”, Masino si rivolse a Franco Nicastro, cronista di giudiziaria: “Dottore Nicastro, mi deve salutare assai assai al dottore…”. Non scrivo il nome di quel collega anche se fu detto pubblicamente. Non mi pare giusto. Dopo tutto quella avrebbe potuto essere anche una minaccia. Il collega Montaperto “talpa” di Cosa nostra dentro il Giornale? Ma non diciamo minchiate. Pippo era testimone di nozze di Mommo Teresi, il più giovane dei tre fratelli costruttori, esponenti di Cosa nostra, poi ucciso dai corleonesi. Si conoscevano da ragazzini. Di queste voci Pippo, grande amico di Mario Francese, se ne fece quasi una malattia. Molti colleghi sono testimoni di questo. Andato in pensione veniva ogni domenica al giornale e consegnava ora a un collega ora a un altro, la sua accorata autodifesa. Pace all’anima sua. Non penso stia bruciando all’inferno come vorrebbero alcuni frettolosi san Pietro. Ma non dimentico i titoli sul maxi processo che, tuttavia, fu seguito da Anselmo Calaciura, un giornalista che certamente non può essere accusato di simpatie per Cosa nostra per formazione, intelligenza, cultura, professionalità. Ma certo la “zona grigia”non smetteva di avere una certa attenzione per il giornale cui riteneva di trovare sponda. Ma sono buon testimone del fatto che in molte occasioni queste sponda mancò. Le analisi vanno fatte sui contesti complessi, non sui singoli episodi che su quei contesti hanno un valore solo concorrente.

4. Ho forti dubbi che tutti questi aspetti troveranno posto nella fiction e ho paura che, come già accaduto, si andrà per successive (ed eccessive) semplificazioni. Né vale il riferimento alle «carte del processo» dove alcuni aspetti restano nelle retrovie della conferma probatoria, e hanno ruolo di argomentazione «ad adiuvandum».

In definitiva credo che l’eroismo di Mario Francese non abbia bisogno di una fiction tv per essere dimostrato. Onore al collega ammazzato dalla mafia e che la mafia combatté sempre. E forse oggi avrebbe avuto qualcosa da ridire su certi metodi e su certe semplificazioni. Con tutto il rispetto per Claudio Fava, per la sua storia, per il suo impegno e per il suo stato di famiglia.

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