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Per gli scafisti minorenni sì alla "libertà in prova" anche se rivendicano le loro azioni

CATANIA. Via libera dalla Cassazione al beneficio della "messa alla prova" - di fatto la sospensione del processo, e niente collocamento in comunità, in cambio dell'impegno a svolgere nel tempo un programma di lavori socialmente utili - a vantaggio degli scafisti minorenni stranieri imputati per pene non superiori ai 4 anni, anche se negano la responsabilità dicendo di averlo fatto per bisogno e non riconoscono l'illegalità delle loro azioni.

Così gli ermellini hanno accolto il ricorso di un giovane scafista fermato nel 2015 quando era diciassettenne. B.M., che oggi ha 19 anni, è accusato di tratta di esseri umani dalla Libia alle coste italiane, insieme ad altri trafficanti. In primo grado era stato condannato dal gup di Catania nel marzo 2016, e poi la pena originaria (la cui entità non è nota) era stata ridotta dalla Corte di Appello di Catania, nel giugno del 2016, a due anni e quattro mesi di reclusione e un milione di euro di multa.

La custodia cautelare era stata sostituita dal collocamento in comunità, ma i giudici gli avevano negato la sospensione del processo e la possibilità di accedere alla messa in prova e avevano detto 'no' anche alla sospensione della pena. Secondo i magistrati, il giovane scafista non aveva "la consapevolezza dell'antigiuridicità" di quello che aveva fatto perchè insisteva "nel negare la sua responsabilità" con la scusa del bisogno economico, mentre la messa alla prova richiede la presa di distanza dalle azioni commesse contro la legge, oltre a una "prognosi di elevatissima probabilità di futuro comportamento corretto".

Nel ricorso in Cassazione, la difesa di B.M. - del quale non è indicata la nazionalità e il cui nome corrisponde a quello di un gambiano senza fissa dimora, non si sa se omonimo, fermato a Padova perchè inneggiava all'Isis dopo la strage di Barcellona - ha sostenuto che la concessione della messa alla prova non esige "l'ammissione del fatto da parte dell'imputato", quel che conta è "la serietà della volontà di intraprendere un percorso di risocializzazione".

La tesi è stata condivisa dalla Suprema Corte che, in sostanza, sottolinea come riconoscere l'illegalità del traffico di essere umani non è il "presupposto necessario" alla messa alla prova. Così è caduta la "preclusione" della Corte di Appello e ora i 'manovali' della tratta non rischiano nemmeno di andare in comunità.

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