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Unchr: «Con le frontiere chiuse torneremo a contare i morti in mare»

«La chiusura delle frontiere disposta da alcuni Paesi balcanici rappresenta un passo indietro per l’Europa». Carlotta Sami, portavoce per l’Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, guarda ad est e spiega come «la decisione di alzare barricate alle frontiere costituisca il rischio di un ritorno al passato». Un passato in cui il trattato di Schengen non era stato ancora firmato e la libera circolazione da un Paese europeo all’altro era un sogno: «Di fronte all’emergenza che riguarda i rifugiati l'Europa sta perdendo la propria essenza», spiega. Il portavoce dell’Unhcr indica le tante decisioni prese dell’Unione europea che, però, non sono state ancora del tutto messe in atto: dagli hotspot per l'identificazione di chi arriva, ai ricollocamenti tra i vari paesi dell’Ue dei rifugiati. Secondo Carlotta Sami, però, c’è un altro strumento che «sarebbe il miglior modo per gestire il flusso migratorio», e cioè i canali umanitari, ma anch’essi «restano inattuati».

Come giudica le chiusure delle frontiere attuate o proposte da alcuni Paesi dei Balcani?
«Rappresentano un passo indietro per l’Europa. Tutte queste chiusure e tutte queste difficoltà nel trovare una soluzione comune sono un danno per una crisi così grave. E il prezzo che si paga è vedere morire tante persone in mare. Viene data ai cittadini l’impressione di una non gestibilità della situazione. Ma non è così».

Perché avviene ciò?
«Perché non si riesce a trovare un progetto comune. Questa crisi e il flusso migratorio che ne deriva sarebbero perfettamente gestibili a livello europeo. Del resto, lo stanno facendo il Libano, la Giordania e la Turchia, che è il Paese con più rifugiati al mondo (due milioni e mezzo di siriani, più qualche migliaio di afgani e iracheni ndc). Si tratta di nazioni che dispongono di risorse nettamente inferiori a quelle dell’Europa, che invece sta mostrando una grande debolezza».

Quali possono essere le alternative alle barricate create da alcuni Paesi balcanici?
«Anzitutto, bisogna applicare quelle decisioni che già sono state prese a livello europeo l’anno scorso. E cioè la redistribuzione dei rifugiati che arrivano. Cosa che è cominciata con lentezza e che si trova in uno stato dormiente. Occorre poi ampliare le possibilità di fare arrivare i rifugiati in un modo regolare, cioè con dei visti umanitari, con dei programmi di reinsediamento e con i ricongiungimenti familiari. Serve anche una gestione accurata delle frontiere, che non significa chiuderle ma prendersi cura dei rifugiati e favorirne il loro trasferimento all’interno dell’Unione europea».

Quindi, credete che i canali umanitari possano essere una soluzione...
«Quando parliamo di vie legali facciamo riferimento ai canali umanitari. Non li chiamiamo così perché sono delle vie legali che già esistono nel regolamento di Dublino e nelle relazioni tra stati. Eppure vengono utilizzate col contagocce. In realtà, sarebbe il miglior modo per gestire il flusso, perché così è possibile fare arrivare persone secondo dei criteri e senza far rischiare loro la vita. Inoltre, utilizzando questi strumenti sarebbe possibile contrastare i trafficanti che avrebbero meno persone disposte a pagare».

Queste chiusure alle quali assistiamo nell’Europa orientale possono spingere i migranti a ripercorrere la rotta tra il nord Africa e Lampedusa?
«Sì, il flusso migratorio dei rifugiati, essendo provocato da una guerra, non può essere deciso o rimandato da parte di queste persone che non hanno altra scelta. Noi temiamo l’effetto domino di queste politiche di chiusura. A volte a persone che ne hanno il diritto viene negato l’accesso alle procedure di ammissione all’asilo. Quindi, hanno bisogno di trovare protezione altrove. In 75 anni di esistenza l’Unhcr non aveva mai avuto un programma umanitario in Europa. La situazione è così grave che abbiamo reputato opportuno avviarlo da alcuni mesi».

Quali sono i punti chiave di questo vostro programma?
«Forniamo assistenza dall’arrivo fino alle procedure di registrazione, ma curiamo anche l’identificazione dei casi vulnerabili, in Grecia come in Macedonia e in Serbia. Da due anni proponiamo delle soluzioni che sarebbero a portata di mano se ci fosse la volontà dell’Europa di attuarle».

La Grecia rischia una forma di isolamento in seguito alle chiusure delle frontiere di alcuni Paesi confinanti?
«La Grecia rischia l’isolamento. E questo ci preoccupa tanto. Perché è un Paese che già si trova in difficoltà. In questo momento bisogna seguire l’esempio della Germania che è stata una nazione coraggiosa e anch’essa rischia l’isolamento verso nord. Quindi, è necessario che i Paesi europei si rendano conto di dover essere responsabili e di dover affrontare davvero questa crisi, ma non respingendo o chiudendo le frontiere».

Secondo lei, invece, l’Italia e la Sicilia come stanno affrontando questo fenomeno?
«L’Italia ha fatto molto negli ultimi anni e ha un sistema di accoglienza che funziona. Sta mettendo in atto i piani decisi in Europa circa l’identificazione e la registrazione dei rifugiati. Se da parte degli altri Paesi dell’Unione europea, però, c’è difficoltà ad accettare i ricollocamenti, che erano stati decisi, le relazioni tra Stati diventano inevitabilmente difficili. Questo fatto crea un grande clima di sfiducia».

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