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Graziano: «In Sicilia sono 4.700 le frane in attività, ma manca ancora un piano di sicurezza»

Un territorio ad alto rischio frane, in cui – secondo il presidente del Consiglio nazionale dei geologi, Gian Vito Graziano - ancora poco si è fatto. Ma qualcosa inizia a muoversi.

Come sta la Sicilia sul fronte dei rischi idrogeologici?

«Fra le regioni italiane, la Sicilia non è messa malissimo: in termini di superficie esposta alle frane non è fra le prime, lo stesso come consumo di suolo (ossia come terreni sottratti all’uso agricolo ed alle funzioni vitali che il suolo stesso svolge, per realizzare edifici o infrastrutture). Questo dipende dal tipo di economia, da uno scarso sfruttamento di tipo industriale, più diffuso in altre regioni. Loro però stanno facendo danni terribili, basti pensare alle ultime alluvioni in Veneto o nelle Marche».

In termini numerici come si traduce?

«Secondo l’ultimo rapporto Cresme, che si riferisce al 2012, in Sicilia ci sono 4.700 frane in attività. Un numero nettamente inferiore rispetto ad altre regioni come ad esempio l’Emilia Romagna (70 mila) o la Lombardia (130 mila). Ma sono pur sempre 4.700, significa 18 fenomeni franosi ogni 100 chilometri quadrati contro i 147 della Lombardia. Non c’è da stare tranquilli insomma. Altre regioni stanno meglio ma dipende da vari fattori: la Sardegna ad esempio ha un territorio composto prevalentemente da rocce molto resistenti; la Puglia ha una morfologia più blanda e prevalenza di terreni calcarei. La Sicilia è composta per l’87% da territorio collinare o montano, con una grande estensione di terreni argillosi, quindi con maggiore vocazione ai fenomeni franosi. Ci sono interi centri abitati costruiti sull’argilla».

Quali sono le zone più a rischio?

«Sicuramente l’area del messinese, Nebrodi e Peloritani soprattutto. Basta guardare qualsiasi carta tecnica di tipo geomorfologico per osservare in quelle aree una vera e propria nuvoletta di punti rossi, che stanno ad indicare una forte concentrazione di frane e dunque dimostrano una maggiore propensione al dissesto. Ricordiamo che dal 2009 al 2010, a fronte di piogge più intense, ci sono state zone fortemente colpite: Giampilieri e Scaletta prima, ma poi anche Caronia, Castell’Umberto, San Fratello».

Sono stati adottati provvedimenti per proteggere i territori?

«In Sicilia purtroppo non abbiamo messo mano alla sicurezza del territorio. Manca la manutenzione ordinaria, ossia pulire canali, tenere sotto controllo il regime delle acque. Manca la manutenzione delle strade, quella che un tempo era affidata agli stradini che pulivano le caditoie. Manca l’agricoltore che una volta presidiava il territorio. Non si è messo mano alle opere infrastrutturali e non si fa pianificazione adeguata. Mancano persino i piani di protezione civile, la gestione degli allarmi. Dal 2009 a oggi siamo stati a discutere delle cose da fare ma non a farle. Un piano complessivo in Sicilia non è mai partito, sta invece decollando quello a livello nazionale, un piano che complessivamente ha bisogno di 21 miliardi».

Cosa prevede questo piano?

«Una parte riguarda le aree metropolitane, 14 in tutta Italia, 3 in Sicilia (Palermo, Catania e Messina). La prima copertura per questi interventi c’è ed è pari a 700 milioni di euro. Un’altra parte del piano riguarda tutto il resto del territorio, 7 mila interventi previsti in tutta Italia da realizzare da ora al 2020. I primi fondi subito disponibili sono 2 miliardi e 300 milioni».

 In questo piano la Sicilia che ruolo ha?

«Le tre città metropolitane hanno presentato i loro progetti: Catania ha chiesto 57 milioni, Messina 32, Palermo 5,5 milioni per un solo intervento, quello per la manutenzione dei canali di maltempo. Con questi fondi hanno avuto priorità Genova col fiume Bisagno e poi Milano, dove si sono registrate lo scorso inverno sei esondazioni del Seveso. Ma considerato che c’è già la copertura finanziaria, i primi interventi potrebbero essere decretati e partire fra fine anno e la prossima primavera. Per quanto riguarda tutte le altre zone, di competenza della Regione visto che è il presidente incaricato dalla struttura di missione, sono previsti 903 interventi per un totale di 2 miliardi e mezzo. L’ordine di finanziamento dipende da una priorità assegnata in base ad alcuni parametri, primo fra tutti l’esposizione al rischio, ma anche il livello di progettazione».

Sono previsti altri fondi per Giampilieri?

«Non credo, molti interventi sono già stati fatti, la soglia di rischio è stata abbattuta. Nessuno potrà avere mai una sicurezza totale, ma si può tendere a soglie di sicurezza compatibili e convivere con esse, purchè si conoscano. Credo che con gli interventi fatti a Giampilieri oggi ci sia una soglia più accettabile. È fondamentale però continuare con piccoli interventi come le manutenzioni e fare molta attenzione ai piani di protezione civile che in Sicilia sono l’anello debole. La maggior parte sono stati realizzati ma anche quelli fatti bene dai Comuni sono solo sulla carta, non sono stati divulgati. E così non servono a nulla».

Dal viadotto Scorciavacche al viadotto Himera, com’è possibile che le strade siciliane corrano questi rischi?

«La Sicilia ha un vasto territorio collinare e montano ed ampia presenza di terreni argillosi: ciò si traduce in una fortissima vocazione al dissesto, basta un po’ d’acqua ed una certa pendenza per rendere i terreni franosi. La nostra rete stradale interseca molti versanti a rischio. E la manutenzione, per colpa di una legge inadeguata, in Sicilia come nel resto d’Italia, si limita alla manutenzione delle parti strutturali, senza verificare lo stato del terreno su cui esse si impostano. Scorciavacche e Himera sono solo due esempi ormai famosi, ma ci sono altri casi di necessaria attenzione. La geologia complessa della Sicilia è un fatto fisiologico, che però non deve essere una attenuante, piuttosto deve essere stimolo per una maggiore attenzione, come hanno fatto recentemente le Ferrovie che stanno verificando la loro rete nazionale rispetto ai fenomeni franosi».

Per Himera qual è tecnicamente secondo lei la soluzione più adeguata?

«La strada alternativa che sale verso Caltavuturo ha una pendenza elevata, è impossibile pensare si possa aprire al traffico pesante. E non si può nemmeno attutire la pendenza. Una delle proposte di by-pass, quella che prevedeva il ponte Bailey, era geologicamente la meno problematica, ma pare che i costi fossero molto alti e che proprio il ponte Bailey non fosse realizzabile. Pur con tutte le difficoltà connesse, attualmente quella più praticabile è quella dell’Anas che partirà a breve: escludo invece che si possa agire sul versante destro, se non con costi ancora maggiori, perchè si tratta di una zona ancora più esposta alle frane».

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