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Lupo: «Cosa nostra negli stati uniti puntava su affari e immigrazione»

Lo storico: «Prima di Falcone la mafia siculo-americana ha proliferato per cento anni senza collaborazione tra polizie»

Ha studiato la migrazione di Cosa nostra negli Stati Uniti e afferma con certezza che a spostarsi dall’altra parte dell’Atlantico, all’inizio del Novecento, per mettere le basi della Cupola americana, furono «uomini d’affari, esportatori di agrumi, finanziatori dell’immigrazione clandestina». Una spinta affaristica, dunque, secondo lo storico Salvatore Lupo, favorita dall’«abitudine alla corruzione delle varie amministrazioni americane, dalle quali in quegli anni dipendevano anche le polizie». Un ponte che oggi sarrebbe stato «smantellato» perché «l’Fbi ha colpito duramente la struttura della cinque famiglie newyorkesi che, credo, forse neanche esistono più». Discorso diverso per la ’Ndrangheta, giunta fino in Australia, ma lo storico è chiaro: «La criminalità non è per niente invincibile, ma la si deve combattere. La ’Ndrangheta non è stata mai combattuta per esempio. Cosa nostra, invece, dopo la sua deriva terroristica degli anni Ottanta, ha costretto le istituzioni a intervenire. E direi che i risultati si vedono».

Oggi le infiltrazioni della ’Ndrangheta arrivano fino in Australia, ma quando ha avuto inizio questa espansione delle mafie all’estero?

«Il caso originario è quello dell’espansione di Cosa nostra negli Stati Uniti, all’inizio del Novecento e soprattutto a partire dagli anni Venti. Senza questa migrazione, con ogni probabilità, Cosa nostra non avrebbe mai avuto un ruolo centrale sia dal punto di vista reale e che da quello dell’immagine».

Perché?

«Cosa nostra ha potuto giocare su due tavoli e gli apparati repressivi non hanno funzionato».

Ma Giovanni Falcone nel 1980 andò personalmente negli Stati Uniti e avviò una collaborazione con l’Fbi...

«Sì, negli anni Ottanta, ma abbiamo cento anni di mafia siculo-americana senza alcuna collaborazione tra le forze di polizia».

Cosa spinse Cosa nostra oltre l’Atlantico?

«Certamente la grande migrazione siciliana verso gli Stati Uniti dell’inizio del Novecento ha la sua importanza, ma dai miei studi emergono una serie di aspetti particolari. Intanto non è vero che i mafiosi fossero dei normali migranti, dei poveri contadini partiti in cerca di fortuna dalla Sicilia e poi arricchitisi: nella maggior parte dei casi erano invece uomini d’affari, esportatori di agrumi, finanziatori di emigranti, nel senso che gestivano la manodopera che arrivava negli Usa. Avevano insomma una forte propensione al mondo degli affari, nell’ambito di un sistema affaristico transcontinentale, parallelo e precedente a quello creato con la grande migrazione. La spinta era dunque affaristica e si intrecciava anche con l’organizzazione dell’immigrazione clandestina, che negli anni Venti veniva contrastata negli Stati Uniti con leggi molto repressive».

Ma perché proprio negli Stati Uniti?

«È il problema cruciale dell’attrattività della società di arrivo e dove vi sono condizioni favorevoli le mafie si riproducono: i siciliani sono emigrati ovunque negli Stati Uniti, ma la mafia l’hanno fondata solo a New York, perché lì c’erano le condizioni ottimali per la nascita e lo sviluppo di organizzazioni criminali di varie estrazioni etniche. Soprattutto negli anni del proibizionismo».

Sembra un paradosso: il proibizionismo non è la massima espressione della severità dello Stato?

«Tutto al contrario, il proibizionismo attira grandi affari illegali, perché impone una legge che nessuno pensa giusta e finisce per attenuare la linea di confine tra legalità ed illegalità. Un altro elemento importante è stato l’abitudine alla corruzione delle varie amministrazioni americane, dalle quali in quegli anni dipendevano anche le polizie. Un problema che è rientrato proprio con la nascita del Fbi».

Quali erano i rapporti dei mafiosi emigrati negli Stati Uniti con la Sicilia?

«Un aspetto importante è quello della ricostruzione di una struttura speculare negli Usa, forte e autonoma. Si stabilì, per esempio, che chi faceva parte della “famiglia” americana, non poteva appartenere a quelle siciliane. Le persone comunque si muovevano tra le due sponde dell’Oceano, creando anche dei grandi potentati, si pensi alla ”famiglia“ dei Gambino, presente sui due versanti».

Attualmente quali sono i rapporti?

«Oggi questo ponte è stato smantellato, l’Fbi ha colpito duramente la struttura newyorkese delle cinque famiglie che, credo, non esista neanche più. Esiste qualche residuo della “famiglia” Gambino, ma ora la portata di questa organizzazione è molto più modesta».

La ’Ndrangheta sembra invece in piena espansione...

«La migrazione è diversa in questo caso, perché sembra che venga mantenuta la dipendenza dai “locali” originari e che nessuna di queste cosche abbia una forte autonomia all’estero. Io però sono un po’ scettico su questo aspetto: come si può creare un impero mondiale che parte dall’Aspromonte e finisce a Melbourne?».

Come si può contrastare secondo lei questa espansione mondiale?

«La criminalità non è per niente invincibile, ma la si deve combattere. La ’Ndrangheta non è stata mai combattuta per esempio. Cosa nostra, invece, dopo la sua deriva terroristica degli anni Ottanta, ha costretto le istituzioni a intervenire. E direi che i risultati si vedono».

Quanto conta in questo scenario la lotta alla corruzione?

«Secondo me l’aspetto di repressione dei crimini e quello legato agli affari sono strettamente legati. Colpire le mafie soltanto nei loro patrimoni, mi sembra una boiata: gli imperi criminali devono essere combattuti su tutti i fronti, perché fanno affari grazie alla loro forza intimidatoria».

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