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La Caritas: bloccare le frontiere non è una soluzione

PALERMO. «Bloccare le frontiere non è una soluzione. L’Europa si sta chiudendo su se stessa, invece ha bisogno di una politica chiara per gestire i flussi migratori altrimenti ci troveremo sempre costretti ad affrontare emergenze continue. E l’accoglienza spesso è possibile solo grazie all’impegno di volontari e uomini di buona volontà». A parlare è un uomo che nell’accoglienza crede tanto da avere aperto le porte delle chiese ai migranti. Il direttore della Caritas diocesana di Palermo, don Sergio Mattaliano, assieme a tanti collaboratori in quasi due anni ha accolto migliaia di persone, «affidandosi al volontariato e alla provvidenza». Nei giorni scorsi ha partecipato a Tunisi a «Migramed», un meeting sulle migrazioni che ha coinvolto varie realtà del Mediterraneo.

Che cos’è emerso da quest’esperienza?
«È emerso che l’opinione pubblica non ha chiarezza del flusso migratorio e che l’Europa invece di aprirsi sul fenomeno migratorio si sta chiudendo su se stessa. L’esperienza dei cento eritrei sulla scogliera di Ventimiglia dimostra che invece di rispondere al grido d’aiuto dei migranti, è emersa la chiusura da parte della Francia delle frontiere all’immigrazione. Un chiaro esempio che dimostra come, anziché risolvere il caso specifico, si è cercato di sollevare un problema di carattere internazionale».

Quali sono i limiti dell’Unione europea sul tema delle migrazioni?
«Non ha una vera politica sull’immigrazione perché ha cercato finora di trovare soltanto soluzioni tampone. Ci sono nazioni che accolgono tanti migranti come la Germania. L’Italia è sotto pressione invece perché è il primo paese di approdo dei migranti. Dall’altra parte, invece ci sono Paesi che tacitamente chiudono le frontiere. È il caso della Spagna che ha accolto meno di seimila migranti nel 2014. Questo testimonia che non c’è una politica unitaria a livello europeo. Si lascia fare alle singole nazioni. Ci sono accordi, ad esempio, tra Tunisia e Italia per limitare le migrazioni, ma non è così che si è risolto il problema di chi ha difficoltà a vivere, mangiare o non ha libertà di pensiero. Allo stesso modo ha fatto il Marocco con la Spagna, bloccando le frontiere. Bloccare le frontiere non è una soluzione. Il caso della Germania invece testimonia che accogliere non penalizza il Paese; anzi per una nazione che vede allo sviluppo economico l’immigrazione diventa un valore aggiunto».

Quanto incide sull’Europa la “globalizzazione dell’indifferenza” alla quale ha fatto riferimento il Papa durante la sua visita a Lampedusa?
«È una delle malattie dell’Europa. A Palermo abbiamo accolto recentemente 770 migranti. La maggior parte di loro erano donne e bambini. Sono arrivati da paesi differenti: Bangladesh, Eritrea, Marocco, Tunisia, Somalia. Ciò testimonia che cambiano i flussi migratori e chi viene in Italia lascia il proprio Paese perché è davvero disperato. Non si possono respingere queste persone. Hanno diritto a vivere in maniera dignitosa e ad essere accolte nel migliore dei modi. Se una persona ha il desiderio di realizzarsi in un altro Paese, perché riconosce che non può più farlo nel suo, deve essere messo nelle condizioni di potersi spostare regolarmente. Perché dobbiamo chiuderci ed impedirglielo?».

Come giudica l’iniziativa dell’Ue contro gli scafisti?
«Anche in questo caso si sta cercando di tamponare senza risolvere realmente il problema. Non mi pare facile individuare chi è uno scafista e chi no. Si può trattare di casi di persone alle quali danno un cellulare satellitare e li mettono alla guida dei barconi in cambio di poche centinaia di euro o del viaggio gratuito».

E allora, a suo avviso, quali provvedimenti servirebbero?
«Serve una politica che alle origini riesca ad affrontare realmente il problema creando un regolare flusso di mobilità dal sud del mondo verso l’Europa perché in quei paesi africani non ci sono più le possibilità per viverci. Tutto ciò deve avvenire senza alimentare il circuito illegale delle persone che lucrano e speculano sui bisogni degli altri e senza creare altri cimiteri in mare».

La realtà della Caritas di Palermo si è distinta nell’accoglienza dei migranti sbarcati in città. Come è stato possibile ciò?
«È stato fatto tanto, ma tanto ancora resta da fare. Collaborano con me tante persone che fanno parte della parrocchia e della comunità in cui opero a Falsomiele. In più occasioni i volontari mi hanno aiutato a preparare il necessario per l’accoglienza al porto. Ormai è molto tempo che andiamo avanti così. La Caritas sta dando un contributo importante affrontando con tutte le sue forze l’emergenza. Ma non abbiamo la possibilità di avere una struttura che possa accogliere mille o duemila persone. Possiamo rispondere all’accoglienza soltanto con i piccoli numeri perché le nostre risorse economiche ed umane sono limitate. Ci si attiva a vario livello ma, mancando una politica risolutiva sul tema e delle linee guida sull’immigrazione, l’accoglienza è lasciata all’impegno e alla volontà delle singole realtà».

Che cosa cercherete di fare ancora?
«Il nostro obiettivo è quello di estendere l’accoglienza a livello diocesano. Nelle quattro strutture della Caritas riusciamo ad ospitare oltre 400 persone. Ci aiutano alcuni ragazzi molto motivati, ma anche professionisti in pensione. Stiamo cercando anche di coinvolgere altre realtà ecclesiali. La gestione delle risorse economiche resta un problema perché quello che abbiamo a disposizione lo impieghiamo volentieri ma non basta molto spesso a far fronte alle tante esigenze e alle tante spese. Restiamo comunque in prima linea ad affrontare le esigenze di chi ha bisogno e cerchiamo di farlo con la massima trasparenza. Ci sono tanti aspetti da rispettare ed uno di questi è sicuramente quello che riguarda le strutture per l’accoglienza che devono essere a norma, cioè rispettare gli standard richiesti. A volte si va in deroga per affrontare l’emergenza. Le regole restrittive, in alcuni casi, non possono limitare la buona volontà di chi si mette a disposizione volontariamente per aiutare i migranti. La mancanza di politiche concrete lascia la gestione del fenomeno, spesso in balia di una sorta di “fai da te” dell’accoglienza. Noi, per quanto ci riguarda continuiamo ad impegnarci lo stesso nonostante le difficoltà che tutti conosciamo».

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