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Natoli: «Cosa nostra isola Ferdinandea, sa come inabissarsi per poi riapparire»

PALERMO. Le tracce delle mafie al Nord sono piuttosto datate, secondo il presidente della Corte d' Appello di Palermo, Gioacchino Natoli, tanto che, per esempio, «nel 1985, in una traversa vicina a piazza di Spagna, a Roma, vennero catturati i boss Pippo Calò e Nino Rotolo, che erano nella Capitale da qualche tempo». Queste tracce, come spiega il magistrato, non devono sorprendere: «Cosa nostra è tale perché si basa sulla ripetizione di modelli organizzativi e comportamentali ed ha una grandissima forza: la capacità di lasciarsi dimenticare». Si muove sotto traccia, si mimetizza e - come l' isola Ferdinandea - ogni tanto appare, per poi inabissarsi di nuovo. «Questa è una strategia, una tattica», rimarca Natoli e nelle fasi di silenzio non bisognerebbe illudersi che sia stata invece definitivamente sconfitta. Cita spesso Giovanni Falcone, col quale ha «avuto la fortuna di lavorare» e crede fermamente nella sua lezione investigativa, legata alla circolazione delle notizie tra i pm, ma anche alla trasmissione «dei modelli di apprendimento» per la formazione dei giovani inquirenti.

«Abbiamo fatto enormi passi avanti- dice- ma il deficit dello Stato nel contrasto alla mafia è stato legato spesso all' aver dimenticato che certi meccanismi esistono da tempo, che sono stati svelati in inchieste condotte anche quarant' anni fa».

La presenza delle mafie al Nord è un fenomeno recente?
«No e sono tanti gli esempi che lo dimostrano. Negli anni Settanta, per esempio, a Milano, era presente una decina di Cosa nostra, legata alla famiglia di Riesi, quella di Giuseppe Di Cristina, mentre a Roma c' era quella di Angelo Cosentino, della famiglia di Pippo Calò. Quest' ultimo, peraltro, venne arrestato a pochi passi da piazza di Spagna, nel 1985, insieme a Nino Rotolo ed entrambi erano lì da qualche tempo. Neanche l' internazionalizzazione di Cosa nostra è un fenomeno nuovo, emergeva già nella storica inchiesta "Pizza Connection": Vito Roberto Palazzolo nel 1982 operava in Svizzera, tra Lugano ed il lago di Costanza, con Nino Madonia, luoghi nei quali transitavano i proventi di ritorno L' arresto di Pippo Calò a Roma, nel 1985 del traffico di droga tra Palermo e New York. È l' avvento dei Corleonesi che riporta Cosa nostra nei confini nazionali e in terra siciliana: Totò Riina, come ci dice il collaboratore Nino Giuffrè, si sarebbe insediato al vertice di Cosa nostra a gennaio del 1983 a Caccamo».

I fatti che comprovano questa presenza sono davvero numerosi e risalenti nel tempo, eppure la migrazione verso Nord ci appare come qualcosa di nuovo. Perché secondo lei?
«Cosa nostra è tale perché si basa sulla ripetizione di modelli organizzativi e comportamentali ed ha una forza grandissima che è la capacità di lasciarsi dimenticare, di agire sotto traccia e di mimetizzarsi. Dopo il Fascismo e la repressione, è riuscita a restare silente per quasi trent' anni e forse la sua prima riapparizione avviene nel 1963, con la strage di Ciaculli di cui oggi (ieri, ndr) ricorre peraltro il cinquantaduesimo anniversario. L' anno successivo, con la costituzione della prima Commissione d' inchiesta antimafia, presieduta da Donato Pafundi, sparisce di nuovo, si scioglie addirittura, per far venir meno l' oggetto stesso sul quale lo Stato stava lavorando. Riappare qualche anno dopo, con la strage di viale Lazio del '70 e le bombe di Capodanno del '71, ovvero quando i processi di Catanzaro e di Bari si erano conclusi favorevolmente per Cosa nostra. Si manifesta cruentamente negli anni '80, con la seconda guerra di mafia, circa 440 morti ed oltre 700 lupare bianche, proprio quando con Giovanni Falcone iniziano le indagini che porteranno al Maxiprocesso. Proprio Falcone diceva "studiate e troverete tutto" e infatti il deficit delle conoscenze dello Stato è stato spesso legato all' aver dimenticato che certi fenomeni già esistevano da tempo ed erano stati scoperti».

È nuova invece la mafia che è stata individuata a Roma con l' inchiesta «Mafia Capitale»?
«Non credo. Tra il 1988 ed il 1989, l' alto commissario Domenico Sica e Loris D' Amico parlarono di una "agenzia del crimine" nel territorio romano e laziale con contatti nel milieu dell' ex terrorismo nero e con la banda della Magliana. Un' organizzazione talmente strutturata che nell' ordinanza di rinvio a giudizio per gli omicidi di Piersanti Mattarella e di Michele Reina inserimmo anche Gilberto Cavallini e Valerio Fioravanti. Se si riuscì però ad individuare con certezza i mafiosi che deliberarono i due delitti, non è stato così con gli esecutori materiali, di cui ancora oggi sappiamo molto poco: Cavallini e Fioravanti furono riconosciuti da testimoni diretti, come la vedova Mattarella e coloro che erano a bordo dell' auto sulla quale viaggiava Rei na, ma entrambi furono assolti. L' ambiente che ha generato "Mafia Capitale" è un ambiente composito da quel che leggo dalla stampa, che agisce con la carica intimidatoria e con l' uso della riserva di violenza tipiche dell' associazione mafiosa. Si tratta a tutti gli effetti di un' associazione di stampo mafioso, anche se non vi sono tracce di uomini di Cosa nostra al suo interno, per esempio».

Lo spostamento verso Nord avviene per tut tele mafie allo stesso modo? E la spinta è sempre di natura affaristica?
«No. La 'Ndrangheta, per esempio, ha seguito dei canali di migrazione ben strutturati e ha creato delle proprio famiglie al Nord ed anche all' estero, in Germania per esempio, con nuovi affiliati anche in loco. Per Cosa nostra lo spostamento sembra essere stato più casuale e più soggettivo. Calò e Rotolo, per esempio, andarono a Roma per allontanarsi dall' ambiente palermitano che, in quel periodo, si era surriscaldato, sia per la guerra di mafia che per l' azione giudiziaria avviata da Falcone contro Cosa nostra. Andarono con una "decina", appunto, con dei loro uomini e stando lì entrarono ovviamente in contatto coi soggetti criminali del posto. La spinta oggi è senz' altro affaristica, ma già con un documento del Csm del 2002, quando presiedevo la X Commissione, non solo riscontrammo ad esempio la presenza della Camorra nella zona di Brescia, ma stilammo la prima definizione di impresa mafiosa, ovvero come costituita da mafiosi, oppure basata su capitali mafiosi o ancora operante con metodi mafiosi».

Il quadro sembra dunque essere noto da molto tempo, cosa si può fare per bloccare questo fenomeno?
«Sia chiaro che lo Stato ha fatto enormi passi in avanti: conosciamo adesso Cosa nostra nei suoi meccanismi fondanti, ma è un lavoro che ha richiesto decenni. Sempre grazie all' insegnamento di Falcone, possiamo oggi trasmettere un modello di apprendimento ai giovani magistrati, basato sulla tempestiva e completa circolazione delle notizie e delle informazioni tra i pm delle Dda. Falcone sosteneva che fossero necessari degli inquirenti che si occupassero costantemente e senza interruzioni di indagini per contrastare Cosa nostra, esattamente come i mafiosi si dedicano quotidianamente alle loro attività criminali. Ancora oggi non bisogna commettere l' errore di dimenticare che Cosa nostra è sempre uguale a se stessa, poggia sempre sulle stesse regole e che la sua capacità di sparire, persino di inabissarsi, è una sua precisa strategia. Prima o poi riaffiora sempre».

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