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Agueci: «Lo stato avanza, e oggi in tanti non si piegano alle cosche»

Prova disgusto se pensa alle parole di quel vigile che con disprezzo definisce «crasti» i suoi colleghi onesti, ma è convinto che episodi del genere non debbano far perdere speranza in un cambiamento. Quella contro Cosa nostra, il procuratore aggiunto di Palermo, Leonardo Agueci, la definisce «una guerra di trincea, che vedrà vincente l'esercito rappresentato dallo Stato». Anche se dall'operazione «Verbero» emerge chiaramente l'infiltrazione dei boss negli appalti pubblici e un fortissimo controllo del territorio, Agueci crede nella forza della «cultura antimafia e della denuncia». Una guerra «in cui siamo a buon punto, perché progrediamo seppur lentamente. Pensiamo che una volta a Palermo c'era la mafia e sostanzialmente nient'altro - dice - oggi ci sono tante persone che si ribellano, anche grazie all'azione delle scuole, delle associazioni e delle organizzazioni cattoliche».

Come mai un triumvirato alla guida di un mandamento come quello di Pagliarelli? Cosa resta di un boss come Nino Rotolo? O del suo «delfino», Gianni Nicchi?

«Gianni Nicchi è giovane ed appartiene alla stessa generazione dei componenti del triumvirato. Se i vecchi vengono arrestati, e l'ultima operazione, ”Hybris”, risale a non più di tre anni fa, o fatti fuori per dinamiche interne all'organizzazione, come è avvenuto per esempio a Porta Nuova, è inevitabile che subentrino i giovani. Vanno ad occupare un vuoto di potere. Siccome però nessuno di loro possiede un carisma predominante, a Paglierelli è nata questo ”direttorio”, in cui ogni membro ha delle specifiche competenze corrispondenti alle famiglie di Pagliarelli, Villaggio Santa Rosalia e corso Calatafimi. Non credo si tratti di una nomina dall'alto, ma piuttosto di tre personaggi, Perrone, Alessi e Giudice, emergenti dal basso che, però, singolarmente non possedevano il potere necessario a controllare l'intero mandamento. Certo, sono sempre persone cresciute alla ”università” dell'Ucciardone e hanno un qualche riferimento col passato: uno è imparentato col boss Motisi, l'altro un ex braccio di Nicchi, per esempio».

Sono stati individuati diversi episodi estorsivi, ma quanti imprenditori hanno denunciato spontaneamente le richieste di pizzo?

«Più che di denuncia parlerei di collaborazione. Quello che avvertiamo è una tendenza alla crescita di questa collaborazione, ma pur sempre in modo limitato. Se qualcuno viene fuori chiaramente, come è stato proprio in questi giorni nel caso di Francesco Massaro, questo funge da stimolo, favorisce la spinta alla reazione, che è ancora insufficiente».

Sembra che le estorsioni siano in calo, ma paradossalmente l'ultima denuncia, quella di Massaro appunto, arriva proprio dal mandamento nel quale sono stati compiuti gli arresti...

«In calo non significa che non ci siano più estorsioni o che d'incanto spariscano. L'imposizione del pizzo resta pur sempre la più efficace forma di controllo del territorio di Cosa nostra. Nel caso di Massaro, sul quale sono in corso le indagini, si può ipotizzare che un'attività che funziona, in un contesto di crisi, possa fare decisamente gola alla mafia».

Come mai però Cosa nostra decide di ricorrere meno alle estorsioni, visto che è una delle sue armi più potenti?

«I fattori sono due: uno è quello legato alla crisi economica, che mette gli imprenditori in difficoltà tali da non poter essere ulteriormente ”spremuti” dai boss; l'altro è quello legato alla crescita delle denunce ed agli interventi, sempre più efficaci, delle associazioni antiracket».

Da quest'indagine emerge anche un rinnovato interesse di Cosa nostra per il business della droga...

«Proprio le risultanze investigative dimostrano che in città sta arrivando davvero molta droga, sono documentati rifornimenti settimanali. Una volta Cosa nostra gestiva il grande traffico internazionale di stupefacenti, poi l'interesse è scemato. Questo soprattutto perché l'organizzazione poteva contare su altre forme di approvvigionamento. Che ora stanno venendo meno».

E il ruolo di questa donna, Concetta Celano, ritenuta regista del traffico di droga tra il Piemonte e la Sicilia?

«Non mi stupisce, non credo ci siano più grandi differenze di genere neanche nell'ambito della criminalità».

Cosa nostra sembra dover dipendere da altre organizzazioni per rifornirsi di stupefacenti…

«Non parlerei affatto di rapporti di dipendenza, ma piuttosto di scambi commerciali con altre organizzazioni criminali».

Emerge però la facilità con la quale Cosa nostra riesce a mantenere contatti nella pubblica amministrazione. Cosa pensa delle affermazioni del vigile che parla dei suoi colleghi onesti come dei «crasti»?

«Questo episodio è un caso esemplare delle infiltrazioni della mafia nella pubblica amministrazione: quando un personaggio che appartiene ad un contesto certamente mafioso per risolvere i problemi derivanti da un banale accertamento amministrativo trova immediatamente qualcuno negli uffici che, seppure a pagamento, si mette a disposizione. E, nonostante vesta la divisa, fa capire chiaramente da che parte sta, cioè con la mafia. In questi casi anche le offese più cocenti che vengono pronunciate a Palermo diventano dei complimenti e delle vere e proprie medaglie al valore».

Ma quando accade questo è come se crollasse il mondo, sembra che non ci sia speranza per questa città...

«No, non siamo senza speranza, proprio perché abbiamo individuato la mela marcia ed ora dovrà renderne conto. Certo l'incidenza della mafia nella pubblica amministrazione è ancora molto forte. Anche il Comune di Palermo, che pure sta facendo tanto per la legalità, si trova ancora al suo interno persone di questo genere».

Permane l'interesse dei boss per gli appalti pubblici. Come matura l'estorsione al Policlinico?

«Certo, ovunque ci sono soldi Cosa nostra interviene. Sembra peraltro che al Policlinico si muovesse con una certa disinvoltura e su questo serviranno degli accertamenti. In generale, comunque, ci siamo accorti da tempo che quando accertiamo il malaffare nella pubblica amministrazione quasi sempre c'è dietro la mafia anche se non emerge chiaramente».

Forse è ancor più clamorosa l'infiltrazione nel bar dell'ospedale Civico. Com'è stata affidata questa attività?

«Fa specie pensare che il bar, interno ad una delle più importanti aziende fornitrici di servizi pubblici in città come il Civico, fosse assolutamente in mano alla mafia. I locali venivano persino usati per dei summit. Su come ciò sia potuto avvenire le indagini sono ancora in corso».

Possibile che sia al Civico che al Policlinico tutto sia avvenuto senza che nessuno all'interno delle strutture sapesse nulla?

«Ce lo siamo chiesti anche noi e stiamo cercando di dare una risposta sulla presenza di eventuali altri coinvolgimenti».

C'è chi dà la mafia per sconfitta, ma bastano gli esiti di questa sola inchiesta per affermare il contrario. A che punto è questa lotta?

«In occasione dell'anniversario della strage di Capaci, si è rilevato che Cosa nostra ha subito colpi durissimi, ma che ha anche una fortissima capacità di rinnovarsi e che pesca ancora un forte riconoscimento e consenso. E questo accade in particolare tutte le volte che lo Stato non si dimostra credibile. Per vincere questa lotta, è fondamentale la cultura antimafia, che deve però accompagnarsi alla presenza dello Stato. Credo che in questa guerra di trincea, in cui si conquistano pochi metri, che poi magari vengono nuovamente persi, fino a che non si riesce definitivamente a sfondare, siamo a buon punto perché progrediamo seppur lentamente. Uno dei due "eserciti" alla fine dovrà vincere e sono certissimo che sarà lo Stato. Pensiamo che a Palermo una volta c'era la mafia e sostanzialmente null'altro, ora, invece, ci sono anche quelli che si ribellano, c'è l'azione per la legalità compiuta dalle scuole, dalle organizzazioni cattoliche, dalle associazioni».

 

 

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