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Naufragio, "Comandante in fuga perché i soccorritori non erano italiani"

È la dinamica della tragedia confermata da più sopravvissuti in interrogatori resi alla polizia di Stato e alla guardia costiera ripresi nell'ordinanza del Gip di Catania

CATANIA. Il 'comandante' tunisino del peschereccio che ha fatto naufragio la sera del 18 aprile scorso al largo della Libia, provocando la morte di oltre 750 migranti, era alla guida del natante al momento della collisione e «quando ha capito che l'equipaggio del mercantile» che li stava per soccorrere «non era di nazionalità italiana, invece di avvicinarsi provava ad allontanarsi urtando per tre volte» con la nave «e si è capovolto». È la dinamica della tragedia confermata da più sopravvissuti in interrogatori resi alla polizia di Stato e alla guardia costiera ripresi nell'ordinanza del Gip di Catania che ha confermato il fermo dei due scafisti
il tunisino Mohammed Alì Malek, di 27 anni, e il suo 'aiutò, il siriano Bikhit Mahmud, di 25. I due si sono dichiarati innocenti, sostenendo di essere dei 'viaggiatorì.

Il siriano, non soltanto si dice estraneo, ma ha anche accusato il 'comandantè: «Questo capitano - ha fatto mettere verbale nell'inchiesta della Dda della Procura di Catania - aveva in mano un telefono satellitare e parlava con un libico e io ho sentito che diceva :'libico noi moriremò». Eppure racconta un sopravvissuto alla squadra mobile di Catania e allo Sco di Roma, il 'grande direttorè, a terra prima di imbarcarsi gli uomini di Jaafar, ritenuto uno dei capi dei trafficanti libici, li avevano rassicurati: «»abbiamo trovato un buon 'comandantè, gli abbiamo anche dato 10mila dollari«.  Nell'ambito dell'inchiesta riprenderanno il 28 aprile
prossimo gli interrogatori di garanzia disposti dal Gip di Catania dei sopravvissuti entrati nella lista dei testi d'accusa della Procura.

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