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“Berlusconi ideò il meccanismo” Il Cavaliere: sentenza allucinante

ROMA. Fu Silvio Berlusconi l' "ideatore del meccanismo" che per anni ha continuato "a produrre effetti (illeciti) di riduzione fiscale per le aziende" del gruppo Mediaset. E questa responsabilità non venne meno quando il Cavaliere abbandonò le cariche sociali. Nella sentenza in cui spiega perché ha confermato le condanne per l'ex premier a 4 anni per frode fiscale, e per gli altri imputati - il mediatore Frank Agrama e i manager Mediaset Gabriella Galetto e Daniele Lorenzano - la Cassazione non fa sconti. E innesca, immediato, il fuoco di fila del Pdl, dove si grida al "teorema".
In serata, in una nota congiunta i legali dell'ex premier, Ghedini, Longo e Coppi, puntano il dito contro una sentenza "fuorviante e sconnessa dai fatti", "un collage delle sentenze precedenti" con "motivazione inesistente" e ribadiscono la totale estraneità ai fatti di Berlusconi, che "non ha mai avuto incarichi in Mediaset e non si è mai occupato dell'acquisto dei diritti tv".
Subito dopo in un'intervista a StudioAperto per lo più dedicata all'Imu, interviene lo stesso Berlusconi, lapidario, quando manca poco più di una settimana alla riunione della giunta per le immunità: "E' una sentenza allucinate, fondata sul nulla". E si aprirebbe "una ferita per la democrazia" se "qualcuno pensasse di eliminare il leader del primo partito italiano, ovvero il sottoscritto, sulla base di una sentenza allucinante". Le carte depositate dalla Cassazione a soli 28 giorni dalla camera di consiglio ripercorrono fatti e conclusioni dei giudici di primo e secondo grado attraverso 208 pagine di motivazioni che portano in calce le firme dell'intero collegio giudicante in qualità di estensore: una scelta non casuale, a significare che i giudici in toto si assumono la responsabilità di quel testo e di ciò che contiene. Se normalmente, infatti, firma il solo il relatore, qui compaiono i nomi di Amedeo Franco, Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo quali estensori materiali, prima della firma del presidente Antonio Esposito, finito nella bufera per aver rilasciato un'intervista al Mattino dove, in alcuni passaggi, parlava anche della vicenda Mediaset.
In più punti, analizzando i motivi di ricorso delle difese, la Cassazione sgombra il campo dal dubbio, sollevato dagli avvocati, che tribunale e corte d'appello di Milano abbiano travisato elementi di prova o siano incorsi in ricostruzioni incongruenti e illogiche. E fa proprie le conclusioni dei giudici di merito. Quelle conclusioni da cui emerge che attraverso un modus operandi che da Fininvest si è poi innestato in Mediaset, i diritti tv provenienti da major, produttori e distributori venivano prima acquistati e poi fatti oggetto di una serie di passaggi infragruppo o con società solo in apparenza terze, allo scopo di far lievitare i costi per evadere il fisco: 17,5 miliardi di lire nel 2000, 6,6 milioni di euro nel 2001, 4,9 nel 2002 e 2.9 nel 2003.
La catena di compravendita fu accorciata e semplificata - scrivono i giudici - quando Mediaset fu quotata in Borsa, ma il meccanismo restò in piedi. Questo meccanismo, Berlusconi lo conosceva "perfettamente", si legge in sentenza, e "ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizione strategiche i soggetti dal lui scelti e che continuavano a occuparsi della gestione in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale". Parlare di semplice sovrafatturazione, in questo quadro, "appare quasi un sottodimensionamento del fenomeno descritto: è, anzi, inadeguato a definirlo", affermano i supremi giudici. Una risposta anche ai legali di Berlusconi, che avevano chiesto, di fatto, la derubricazione del reato da frode fiscale a false fatturazioni.
Gli avvocati, nelle loro arringhe, avevano insistito anche su un altro aspetto: utilizzare il concetto del "cui prodest" tra gli elementi a sostegno della colpevolezza è debole. Ma dal Palazzaccio non hanno dubbi: i vantaggi erano per Berlusconi, "il soggetto che in ultima analisi continuava a godere della ricaduta economica del sistema praticato". E questo anche quando, con la discesa in campo, si spogliò delle cariche sociali (che allora aveva in Fininvest), e assunse la "veste di azionista di maggioranza". I giudici confutano anche l'obiezione che Berlusconi avrebbe potuto non sapere.
Di più: avrebbe potuto egli stesso essere vittima di una truffa. E di fatto, confermano la solidità delle conclusioni dei giudici d'appello, ritenendole "immuni da vizi logico-giuridici e come tale, non sindacabili": Berlusconi non poteva essere "un imprenditore così sprovveduto da non avvedersi" dei maggiori costi o al punto che i soggetti che a lui facevano riferimento potessero occultaglielo". Soggetti che costituivano "una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto alla periferia del gruppo, ma che erano vicine al sostanziale proprietario, tanto da frequentarlo tutti (da Bernasconi ad Agrama, Da Cuomo a Lorenzano) personalmente".
Del tutto inverosimile, poi, "l'ipotesi alternativa che vorrebbe tratteggiare una sorta di colossale truffa ordita per anni ai danni di Berlusconi" "da parte dei personaggi da lui scelti e mantenuti nel corso degli anni in posizioni strategiche". L'ultima parte del provvedimento riguarda la pena accessoria, l'interdizione dai pubblici uffici, per cui la Cassazione ha rinviato alla Corte d'appello di Milano perché ridetermini, abbassandola, la durata dell'interdizione, in secondo grado fissata in 5 anni.

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