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Stato-mafia, distrutte le intercettazioni tra Napolitano e Mancino

La procedura avvenuta nel carcere Ucciardone di Palermo dove si trova il server in cui i file erano conservati

PALERMO. All'una era tutto finito. Mesi di veleni, polemiche e ricorsi prima alla Consulta, poi alla Cassazione. Le registrazioni delle conversazioni tra l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino e il capo dello Stato Giorgio Napolitano sono state distrutte. Come deciso inequivocabilmente dai giudici costituzionali, come ribadito dalla Suprema Corte. Le quattro telefonate, intercettate dalla Procura di Palermo che indagava sulla trattativa Stato-mafia, tra febbraio 2011 e maggio 2012, non esistono più. Il gip Riccardo Ricciardi a cui i pm, dopo la sentenza della Consulta che, nel conflitto di attribuzioni tra poteri dava loro torto, ha cancellato i file audio. A compiere materialmente le operazioni, che si sono svolte nel carcere Ucciardone, è stato un tecnico della Rcs, la società milanese che gestisce il server in cui le registrazioni erano conservate. Pochi minuti per mettere la parola fine a una vicenda lunga quasi un anno e cominciata quando, con un'intervista rilasciata a La Repubblica il pm Nino Di Matteo, tra i magistrati che indagano sulla trattativa, confermò l'esistenza delle telefonate anticipata da un settimanale. Una rivelazione costata al magistrato l'avvio di un procedimento disciplinare. Dopo qualche mese l'avvocatura dello Stato sollevò il conflitto di attribuzioni con la Procura di Palermo che, pur ritenendo irrilevanti per l'indagine le conversazioni, sosteneva che queste dovessero essere distrutte nel corso di un'udienza alla presenza delle parti interessate: cioè tutti gli indagati. Per la Consulta un'inaudita violazione del principio di riservatezza delle conversazioni del Capo dello Stato che, peraltro, per legge non si sarebbe potuto intercettare. Il contenuto delle telefonate è rimasto top secret. A fronte delle tante illazioni, la sola certezza che con l'inchiesta sulla trattativa non avessero alcuna connessione. Dopo la bacchettata della Consulta, il gip Riccardo Ricciardi dispose la distruzione dei file nei quali, sottolineò il giudice, mancavano «riferimenti a interessi relativi a principi costituzionali supremi» che potessero essere pregiudicati dalla distruzione. Sulla strada della eliminazione si mise il ricorso di Massimo Ciancimino, uno degli imputati del procedimento sulla trattativa. La distruzione delle telefonate, nel segreto dell'udienza e senza il contraddittorio delle parti - sostenne - avrebbe potuto ledere il suo diritto di difesa. Una tesi bocciata dal gip che, però, dovette fare i conti con la decisione di Ciancimino di rivolgersi alla Cassazione. In attesa della decisione della Suprema Corte, fissata per il 18 aprile, il gip rinviò la distruzione all'udienza di oggi. Il rigetto del ricorso del superteste-imputato della trattativa, ha consentito di superare una empasse che, come scrive la Cassazione, ha causato un «vulnus costituzionalmente rilevante». E di arrivare alla fine della storia. Una valutazione non condivisa da un altro protagonista della vicenda: Salvatore Borsellino, figlio del magistrato ucciso dalla mafia nel '92. «Se la impossibilità per me di audire queste intercettazioni dovesse diventare definitiva, - ha aggiunto forse non sapendo che la cancellazione ormai era avvenuta - farò causa allo Stato per il comportamento di Napolitano, della Corte Costituzionale e dell'autorità giudiziaria».

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