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"Chi ha l’agenda di mio padre ha un’arma di ricatto"

L’analisi della strage di via D’Amelio nelle parole di Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, il magistrato ucciso con la scorta il 19 luglio di vent’anni fa. “Il depistaggio, ora acclarato dai colleghi di mio padre che attualmente conducono le indagini sulla strage per produrre i suoi effetti devastanti è stato perlomeno avallato da altri magistrati”

PALERMO. Ieri ha reso omaggio alla memoria di suo padre come è stile di famiglia: lavorando sodo. Alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio, Manfredi Borsellino, oggi commissario di polizia a Cefalù, ha coordinato un’operazione sulle Madonie che ha fruttato nove arresti. Poche chiacchiere e sudore della fronte, così ha celebrato il ricordo del genitore amatissimo, «uno che non si perdeva d'animo mai, soprattutto davanti a noi».
Oggi, nel ricordo di Manfredi, Paolo Borsellino è «un padre di cui andare fiero, da italiano e da figlio», ma è anche una vittima che aspetta ancora giustizia, dopo un processo depistato e una nuova inchiesta che ha aperto nuovi scenari sulla trattativa tra lo Stato e la mafia, un patto scellerato che al giudice ripugnava. E che adesso è tornata al centro della cronaca, con il braccio di ferro tra la procura di Palermo e la presidenza della Repubblica sull’utilizzo di alcune intercettazioni.
«Oggi — racconta Manfredi — sappiamo di avere assistito a Caltanissetta a un processo-farsa, a indagini condotte da un ex questore e prefetto, Arnaldo La Barbera, che aveva tra l'altro molta fretta di fare carriera alla cui memoria, nonostante tutto quello che è già emerso e che lo vede tra gli esecutori materiali di un colossale depistaggio, alcuni miei forse poco informati colleghi continuano a intitolare inspiegabilmente qui a Palermo un torneo interforze di calcetto».
Già. Che un pesce piccolo come Vincenzo Scarantino, un picciotto della Guadagna che amava gonfiare il petto fosse l’autore della strage era arduo da credere. Ma sulle sue parole la procura di Caltanissetta ha costruito l’architrave di una ricostruzione che si è rivelata essere una delle bufale più clamorose della storia italiana.
«Il depistaggio, oramai acclarato da quei colleghi di mio padre che attualmente conducono le nuove indagini sulla strage di via D'Amelio — dice Manfredi — uomini che non finirò mai di ringraziare assieme a mia madre e alle mie sorelle, purtroppo, per produrre i suoi effetti devastanti è stato perlomeno avallato da magistrati requirenti e giudicanti; voglio credere che tutti questi magistrati, proprio tutti, siano stati sempre in buona fede e quindi davvero tratti in inganno dalle false risultanze investigative che gli venivano poste sotto gli occhi».
La verità è ancora da scrivere. E un tassello di quella verità è l’agenda rossa di Borsellino che scompare all’indomani della strage, le pagine in cui il magistrato scriveva febbrilmente nei suoi ultimi giorni. «Io — dice Manfredi — non posso sapere esattamente cosa scrivesse, posso solo ipotizzare che su quell'agenda volesse cristallizzare conoscenze, acquisizioni investigative e quant'altro un giorno avrebbe riferito ai suoi colleghi di Caltanissetta, se solo lo avessero convocato e sentito formalmente. Ma in quei cinquantasette giorni tra la morte di Falcone e la sua - come è noto - nessuno di quei giudici allora in servizio alla procura di Caltanissetta ritenne opportuno acquisire le sue dichiarazioni, redigere un verbale».
Dov'è adesso l'agenda? «Nella disponibilità di qualcuno che può anche solo averne intuito il contenuto esplosivo. Distrutta o ancora intatta? Non lo so. Nel secondo caso, certamente una formidabile arma di ricatto in mano a chi ce l'ha».
L’ultima fotografia di Borsellino, scattata il 6 luglio del 1992, racconta il dolore, la solitudine, l’angoscia del giudice che tutta Palermo indica ormai come la vittima designata, il morto che cammina. Sul dondolo della sua villetta di Villagrazia di Carini, quella da cui lui partirà la domenica fatale per andare incontro al suo appuntamento con la morte, ha il volto scavato, lo sguardo sofferto, gli occhi distrattamente rivolti all’obiettivo. È passato un mese e mezzo da quando Giovanni Falcone - suo amico e scudo - è saltato in aria a Capaci, ma per lui è cambiato tutto. Tredici giorni dopo quella fotografia, la domenica 19 luglio, il tritolo avrebbe squarciato l’asfalto e i palazzi di via d’Amelio.
Il tempo di scendere in quella strada in cui nessuno aveva provveduto a mettere un divieto di sosta, di scampanellare al citofono della madre e la Fiat 126 sarebbe esplosa. Con lui muoiono Emanuela Loi, uno scricciolo di 45 chili e 24 anni che è tornata dalle ferie nella sua Cagliari per senso del dovere nonostante non si senta bene; Eddie Cosina, un omone di Trieste che volontariamente è piombato nella trincea di Palermo e che sempre per sua scelta è in servizio al posto di un collega appena arrivato; Agostino Catalano, che ha lasciato a casa due figlie già orfane di madre; Claudio Traina, al suo primo giorno di lavoro accanto a Borsellino; Fabio Li Muli, che pochi giorni prima ha chiesto alla sorella di ricordagli le parole dell'Ave Maria.
Il giudice un martire? Manfredi sorride, amaro: «L'ultimo dei suoi desideri era lasciare la moglie vedova e tre orfani ancora ragazzi, ma era consapevole che questo sarebbe potuto accadere. Diceva che non era suo compito pensare alla sua sicurezza personale poiché vi erano altre persone e istituzioni deputate a farlo, il suo compito era piuttosto far sì che i suoi familiari e gli agenti di scorta non rimanessero coinvolti in un attentato ordito alla sua vita: con i primi è riuscito nel suo intento, con i secondi, purtroppo, no».
Oggi il ricordo di suo padre è amore, gratitudine, ammirazione. «Era uno con le spalle larghe così, uno che si assumeva sempre le responsabilità per tutti, in famiglia e nel lavoro. Lo aveva fatto quando aveva seguito i sette figli della sorella Adele, rimasta presto vedova. Lo aveva fatto con i suoi giovani della procura di Marsala e di Palermo. Io dico sempre che ha salvato molte vite, perché i problemi, i pericoli, li affrontava lui in prima persona facendo scudo agli altri. Me lo disse il pm Gioacchino Natoli, piangendo con me in macchina, dopo la strage: abbiamo sbagliato, se avessimo saputo comunicare all'esterno, agli uomini di Cosa Nostra, che uccidendo Borsellino non avrebbero azzerato tutto, che ci sarebbero stati altri a portare avanti la sua missione, forse lui sarebbe ancora vivo».

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