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Nato in Libia ma in Sicilia da 30 anni: “Immigrati? L’Italia non è vittima”

Farid Adly, giornalista originario di Bengasi ma ora residente ad Acquedolci nel Messinese: “Accogliere è un dovere etico, ma non si possono ammassare 5 mila persone su un isola. Gheddafi? Ormai è un uomo finito”

PALERMO. Riecheggia nelle nostre orecchie come il titolo di un film, “Odyssey Dawn”, ma non lo è: e, mentre l’impresa militare contro il regime libico di Gheddafi lascia ancora spazio alle domande, ai dubbi, alle ansie e alle speranze di molti, Farid Adly - un uomo che del giornalismo ha fatto passione e dovere - ci offre testimonianza di quanto è accaduto e accade in Libia. Farid Adly vive in Italia da 45 anni ma è originario di Bengasi. Collaboratore per il Corriere della Sera e Il Manifesto, Farid Adly è direttore dell’Agenzia stampa bilingue Anbamed, fondata nel 1999 e considerata un importante ponte di comunicazione e reciproca conoscenza tra le regioni del Mediterraneo. Vive insieme alla moglie e ai loro due gemelli ad Acquedolci, un paese in provincia di Messina: una decisione apparentemente azzardata per un uomo che ha vissuto in una metropoli come Milano. "E’ una scelta di vero amore – spiega Farid-; inoltre i mediterranei hanno un modo diverso di approcciarsi all’altro, c’è una maggiore attenzione ai rapporti umani; ciò non toglie la presenza di grande solidarietà anche al nord. Lo ribadisco sempre: non mi sono mai sentito straniero in Italia". Da trent’anni, la Sicilia è la sua casa, una Sicilia non lontana dalla sua terra natale, la Libia: una Libia che soffre, spera e crede in un futuro dopo Gheddafi.    

In Libia, ha familiari coinvolti negli scontri? 
"Tutta la mia famiglia è a Bengasi e i mie zii materni si trovano a Misurata. Diversi miei parenti sono stati sì coinvolti nell’insurrezione, ma senza risvolti negativi. Un mio cugino, membro del Comitato degli Avvocati, è stato arrestato durante gli scioperi e i sit-in dinanzi al tribunale cittadino ripresi da Al Jaazera: scomparso per dieci giorni è riuscito a tornare a casa sano e salvo durante l’insurrezione di Tripoli. Mio nipote Alì di 15 anni, invece, in contatto su Internet con degli amici di Tunisi e de’ Il Cairo battutisi per la libertà del loro popolo, quando è toccato a lui non si è tirato indietro: nonostante la mamma lo trattenesse, è sceso in piazza a petto nudo insieme a migliaia di altri giovani. Della mia famiglia non è rimasto ferito o ucciso nessuno, per fortuna: ma questo non fa diminuire l’angoscia per il mio paese".  

Come reputa l’intervento delle forze alleate?
"Mi definisco un pacifista antimilitarista ma non ritengo condannabile l’azione intrapresa: alla Libia non poteva bastare essere rimpianta a causa della repressione di un tiranno. Gheddafi minaccia il suo ritorno e l’annientamento dei traditori, come già in passato è accaduto: nel 1996, 1271 detenuti della prigione Abu Salim sono stati trucidati perché chiedevano migliori condizioni di vita ma, adesso che il velo della paura è caduto, il popolo si è sollevato. La sommossa del mio popolo non è nata come lotta armata. La Manifestazione della collera – così come è stata definita - prevista per il 17 febbraio è stata anticipata al 15 a causa dell’arresto di Fathi Terbil l’avvocato delle donne, parenti dei prigionieri assassinati ad Abu Salim. Centinaia di migliaia di uomini hanno aderito alla manifestazione di Bengasi a cui si è data risposta con l’estrema violenza: e così, mentre l’esercito libico si rifiutava di scagliarsi contro gli innocenti, i mercenari trascinavano i cadaveri per riscuotere i soldi dovuti. La volontà del dittatore è stata fermare sul nascere una ribellione pacifica con l’oppressione fisica: inviare macchine da guerra e armamenti contro i civili. Quando Bengasi chiede aiuto all’Onu, domanda di essere sostenuta e sa che potrà scaturire la definitiva controffensiva a Gheddafi. Sono il primo a sapere che non esistono guerre umanitarie: è chiaro che si tratta di petrolio ma l’Italia, gli Usa avevano già accordi e mani sull’oro nero della Libia: a questo punto era un passo necessario; Bengasi  potrà solo ringraziare".  


Cosa pensa della presa di posizione dell’Italia? 
"Inizialmente l’Italia non ha prestato attenzione alle tensioni in Libia e non c’è stata una presa di posizione concreta: piuttosto che parlare di una politica estera lungimirante, la definirei  opportunistica, nonostante Gheddafi sparasse sulla sua gente. Ufficialmente l’Italia ha stabilito una posizione di sostegno all’Onu e alla coalizione ma, in realtà, ha sempre mantenuto le distanze dall’azione militare contro Gheddafi. Ma l’Italia deve decidere una politica estera coerente".  


La Libia deve avere ancora paura di Gheddafi? E l’Italia, in particolar modo la Sicilia?  
"Non bisogna avere paura. A Bengasi, il Consiglio Nazionale di Transizione è guidato da democratici capaci. Gheddafi è un uomo finito: sta pensando di salvare la pelle e mantenere con la famiglia le riserve auree rubate e portate ai confini con il Ciad. Chiunque si aggrappi a Gheddafi finirà con l’affogare insieme a lui".    

Come dovrebbe comportarsi la Sicilia con gli immigrati? 
 
"La Sicilia ha assunto una posizione corretta nel fare fronte all’emergenza immigrati, riuscendo a garantire assistenza a chi è arrivato o arriverà dalle coste vicine. Ma mi sento di fare un appello all’opinione pubblica: di fronte a una situazione delicata, non si può pensare di non guardare al proprio dovere etico. Ad esempio, lo Yemen, malgrado la povertà ospita centinaia di migliaia di  profughi provenienti dal Corno d’Africa; la Tunisia ne ospita 250.000: entrambi gli stati non fanno vittimismo e si mobilitano per accogliere i bisognosi a braccia aperte. L’Italia ha l’obbligo morale di garantire asilo politico: non si possono ammassare 5000 persone in un’isola di altrettante 5000 persone; è un’azione criminale, una pallida meschinità politica e umana. Il dibattito istituzionale sorto sull’allarme profughi è stato manipolato al fine di creare un problema inesistente: si è parlato di 300.000 profughi nel territorio italiano e i numeri, invece, sono di gran lunga inferiori (15.000). In Germania, allora? Fino al 1° gennaio sono stati contati ben 600.000 immigrati. L’Italia non può farsi vittima di un fenomeno che non c’è".    

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