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Mafia, Golem 2: "Così funzionava la posta del boss"

Costretto dalla lunga latitanza, come il padrino di Corleone Bernardo Provenzano, a comunicare con i pizzini, Matteo Messina Denaro aveva brevettato un metodo quasi infallibile. Improntato alla massima cautela in tutte le sue fasi: da quella della scrittura, a quella dello smistamento dei messaggi

Palermo. Prima regola: non lasciare traccia. Costretto dalla lunga latitanza, come il padrino di Corleone Bernardo Provenzano, a comunicare con i pizzini, il boss Matteo Messina Denaro aveva brevettato un metodo quasi infallibile. Improntato alla massima cautela in tutte le sue fasi: da quella della scrittura, a quella dello smistamento dei messaggi. Un "servizio postale" che il superboss, ricercato da 14 anni, riteneva a prova di indagini, svelato invece dalla polizia, che oggi ha decapitato la rete di fiancheggiatori del capomafia trapanese. A curare, con accortezza maniacale, i passaggi salienti della comunicazione era lo stesso boss latitante, rimasto scottato dall'imprudenza di Provenzano, che aveva lasciato nel covo in cui fu arrestato una serie di bigliettini firmati dal ricercato trapanese. Proprio per non ripetere l'errore del padrino, Messina Denaro distruggeva tutta la posta in entrata e consigliava vivamente ai suoi interlocutori di fare altrettanto.   "La informo che nelle mie lettere che hanno trovato a lui (Provenzano, ndr) si parla anche di lei - scrive il capomafia all'ex sindaco di Castelvetrano Antonino Vaccarino -. Capirà da sé che ci sono persone, a me vicine e care, che ora sono nei guai, compreso lei, e mi creda sono imbestialito anche se mantengo la calma, perché l'ira non porta a niente".     

 

"Non ci voleva tutto ciò - prosegue Messina Denaro irritato per la leggerezza di Provenzano - è una cosa assurda dovuta al menefreghismo di certe persone che tra l'altro non si potevano e dovevano permettere di comportarsi in siffatto modo".    Ma la distruzione delle tracce dei pizzini non è l'unico accorgimento adottato dal mafioso che non scrive mai di proprio pugno i messaggi, affidandone la composizione sempre allo stesso uomo di fiducia che, così, potrà essere riconosciuto dai destinatari. A differenza del padrino corleonese, costretto anche dal grosso numero di interlocutori a ricorrere a decine di postini, il capomafia trapanese tende a ridurre i "messaggeri" che, peraltro, costringe a staccare i cellulari durante la fase della consegna della posta per il timore che attraverso i telefoni si possa risalire alla loro posizione.     

 

Pur di salvaguardarsi il boss latitante, poi, impone che i due diversi momenti dell'invio e della raccolta dei pizzini avvengano tre sole volte l'anno e in date rigidamente prestabilite. "Un tale sistema - scrivono i pm - seppure a discapito della tempestività delle comunicazioni,  non solo diminuisce, a sua volta, quantitativamente i delicati movimenti dei tramiti, ma la tempistica prefissata consente soprattutto che le consegne avvengano automaticamente, senza che il latitante abbia la necessità, di volta in volta, di esporsi per indicarne i luoghi e i tempi". Una regola rispettata alla lettera da uno dei fermati- Giovanni Risalvato - che, non sapendo di essere intercettato, spiega al suo interlocutore: "io domani mattina li do a chi li devo dare... perché quello domani mattina, quando viene, non è che gli posso dire aspetta che devo raccogliere le cose. Perché ci sono giornata! orario ! tutte cose puntate ! precise a millesimo di grammo ! Lì non si può 'cugghiuniari' (scherzare, ndr)".

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