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Un anno senza Pablito. La moglie «L'Olimpico Stadio Rossi? Sarebbe bello»

Parla la vedova Federica Cappelletti, giornalista e scrittrice: «È un’idea giusta quella del presidente Gravina, quello di Roma è l'impianto della Nazionale e lui viveva per la maglia azzurra. A patto, però, che non diventi motivo di polemica».

Paolo Rossi si immaginava sempre così: con la maglia azzurra e le braccia alzate

«Se potessi rivederlo mi piacerebbe capire cosa pensa di quello che succede, del periodo che stiamo vivendo. Quando già stava male Paolo ha fatto tanti tamponi e si augurava che il vaccino contro il Covid arrivasse prima possibile. Non è riuscito a riceverlo, ma sarebbe stato un convintissimo testimonial della campagna di immunizzazione».

A parlare è Federica Cappelletti, giornalista e scrittrice, vedova di Paolo Rossi, scomparso a 64 anni il 9 dicembre del 2020, stroncato dal cancro dopo mesi di sofferenze, speranze e angosce.
L’Italia si appresta a ricordare con manifestazioni, eventi, speciali tv il Pablito nazionale, l’eroe sportivo che ha fatto palpitare emozioni, sogni e gioie di una generazione. Il goleador di Spagna '82, anno in cui vinse anche il Pallone d’Oro, «manca alla sua famiglia, ma non solo. Ora che inizio a “risvegliarmi” capisco quanto fosse trasversale la sua popolarità. Sto ricevendo tante lettere e messaggi di affetto perché Paolo non è mai stato un personaggio divisivo», racconta lei.

Per questo «ho apprezzato la proposta del presidente della Figc, Gabriele Gravina, di intitolargli l’Olimpico. È un’idea bella e giusta, è lo stadio della Nazionale e lui viveva per quella maglia. “Vorrei essere ricordato così. In azzurro e con le braccia levate al cielo”, diceva. Quindi, magari... A patto, però, che non diventi motivo di polemica».

Manca Pablito al calcio, manca uno come lui alla nazionale. Il ct, Roberto Mancini, è giustamente soddisfatto del gruppo che ha creato, ma prima dell’Europeo ebbe modo di auspicare la nascita di un «nuovo Paolo Rossi». Qualcuno l’ha individuato nell’attaccante del Sassuolo Giacomo Raspadori. Una bella responsabilità, forse troppo grande.

«Paolo non vedeva un suo possibile erede perché lui aveva una caratteristica innata - sottolinea Federica -: giocava con la testa prima che con i piedi. Diceva “io cercavo di capire in anticipo dove sarebbe arrivata la palla e mi facevo trovare pronto”».

Così riusciva a rendersi invisibile agli avversari, per poi coglierli di sorpresa. Ad anni di distanza da quel 3-2 del Sarrià di Barcellona, dove la sua tripletta al Brasile lo consacrò leggenda per sempre, Rossi raccontava che Junior, poi approdato al Torino, non si capacitava di come fosse riuscito a “nascondersi” nell’area piccola verdeoro per colpire, indisturbato, la terza volta. Smessi gli scarpini, Rossi scelse di lasciare il mondo del calcio, che frequentava solo in veste di commentatore televisivo.

«Aveva ricevuto delle proposte per allenare, alcune anche importanti - racconta la moglie - ma è uscito di casa a 16 anni e fino ai 32 ha vissuto tra un ritiro e l’altro. Ne aveva abbastanza. Voleva una vita diversa». Però ci teneva che un’impronta del suo passaggio rimanesse: «Il lascito sono i valori ai quali non ha mai rinunciato, a cominciare dal fair play. Sentiva di portare una grande responsabilità: “Sono un simbolo e tutto ciò che dico diventa un messaggio”».

Forse anche per questo, per non rischiare strumentalizzazioni, aveva scelto di chiudersi quella porta alle spalle. I suoi tratti, non solo fisici, mamma Federica oggi li rivede nelle figlie Maria Vittoria e Sofia Elena. «Specie la prima, la più grande, è fissata con il calcio e soprattutto la Nazionale. Conosce nomi, ruoli, statistiche. In questi giorni ha scritto una letterina al papà per dirgli quanto gli manca. Ma anche che quando guarda le partite degli azzurri lo sente più vicino. A volte mi sorprende - conclude - perché ne parla da esperta. È come se tornasse a galla ciò che ha assorbito quando seguiva le partite con Paolo».

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