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L’Ellis Island dell’era Covid

La Ellis Island della pandemia a Palermo è un vecchio sbaraccato padiglione fieristico. E una fila di transenne precipitosamente sparpagliate su un marciapiede, dietro le quali provare a intruppare centinaia di anziani. Acciaccati e infreddoliti. Terrorizzati e speranzosi. In una lunga, lunghissima attesa, per riuscire finalmente a varcare la soglia di un futuro si spera migliore.

A presidiarla ci sono uomini in divisa, più fluorescente che militaresca, che impietositi distribuiscono almeno acqua agli assetati e qualche volta –ma non sempre –una seggiola agli esausti.

L’attesa intanto va avanti. Ore e ore. Con l'ansia che un malanno non accertato o non dichiarato li possa rimandare indietro, a dover ricominciare tutto daccapo, oltre l'oceano del contagio. Il passaporto verso il nuovo mondo – nell'era in cui le migrazioni seguono ormai altre rotte e segnano altri destini – non è più in un timbro su un foglio ingiallito, ma nel contenuto di una preziosa fialetta risucchiato in una siringa e poi iniettato nell'avambraccio.

Per entrare nel nuovo mondo dei vaccinati nell'era del Covid 19. Quella dei 122 milioni di casi e 2 milioni e 700 mila morti nel mondo, che in un anno appena hanno modificato forse per sempre il nostro approccio al destino, ai rapporti sociali. Alla vita. Immunizzati, sì, ma chissà per quanto. Poi si vedrà.

La Ellis Island della pandemia a Palermo – non solo a Palermo - in nulla trova assonanza con il Mattarellaunodinoi che arriva allo Spallanzani, si siede anziano fra gli anziani in paziente attesa del proprio turno, riceve la sua dose e va via silente e discreto. Ci viene difficile considerare quella come l'immagine sacrale della corsa ai vaccini in un Paese fiaccato e accartocciato sull'alchimia dei suoi tre colori (anzi quattro, la Sardegna fa scuola chissà come, ma intanto vaccina poco), se poi a Palermo – nella Palermo di Mattarella – la dignità svilisce nel disagio e nel disordine, volano insulti e sputi e il distanziamento sociale sulla soglia dell'immunizzazione è un concetto astratto. Come quello dell'efficienza e del buonsenso.

Chi deve dare risposte annaspa nel giustificazionismo di maniera, un po' pilatesco e un po' negazionista. E ieri era ancora così. E oggi. E domani ancora.

Intanto il calendario si intasa di giornate commemorative e ci riporta impietoso ma fatale al 18 marzo di un anno fa, ai camion dell'esercito incolonnati a Bergamo, ai morti portati via di notte, alle ore più buie che oggi non trovano ancora contrasto in un'alba più limpida e rassicurante. Un livido Conte aveva allora da poco chiuso gli italiani in casa. Un ceruleo Draghi ieri ha provato a uscire dal suo mutismo della concretezza, per recitare l'ennesimo augurio e impegno, fra lo Stato che c'è e l'Italia che ce la farà. Già detto da altri. Già sentito da tutti. Intanto abbozziamo cerimonie, ammainiamo bandiere, piantiamo alberi alla memoria, fra lacrime e ricordi. Mentre c'è chi prega e chi boccheggia, chi si cautela e chi se ne sbatte.

Sembra che non sia cambiato nulla. In verità qualcosa è cambiato. Non contiamo più solo i morti. Abbiamo finalmente cominciato a contare i vaccinati. Nessuno si illudeva che dai laboratori sparsi per il mondo emergesse un novello Jonas Salk. Grazie a lui la poliomielite è da decenni solo una rara eccezione.

Non si è messo un soldo in più in tasca. E a chi gli chiedeva del brevetto miracoloso, lui rispondeva serafico che non esisteva alcun brevetto. Perché non si può brevettare il sole. Salk è morto ormai un quarto di secolo fa. Il suo erede oggi si chiama Big Farma. Non è un uomo, tanto meno un benefattore, ma un'entità sovracontinentale che assomma 500 miliardi di fatturati annui. E i vaccini gonfiano il gruzzolo.

Così ognuno fa da solo e ciascuno se la gioca al peso politico del portafoglio. L'Europa sceglie la via della cooperazione e della concordia e intanto arranca fra chi fa il furbo e chi sorpassa. Chi produce e chi spende. Gli Usa, la vecchia (e sempre un po' perfida) Albione, Israele, gli arabi dei petroldollari. A queste latitudini intanto contiamo le fiale come un tempo si contavano i fagioli sulle tavole dei poveri contadini.

E di tanto in tanto buttiamo pure qualche dose di Pfizer perché, una volta scongelata, o si usa subito o se qualcuno da forfait finisce dritta nella spazzatura. AstraZeneca andava bene per alcuni, poi per qualcuno in più di alcuni, poi è sicura, poi però fermiamoci un attimo perché chissà che non ci sia scappato il morto, ma non è dimostrato e allora possiamo ripartire e intanto fra la gente c'è chi nicchia e i no vax gongolano.

Nessun vaccino è sicuro al cento per cento, neanche quello per una banale influenza. Ma tutta la vicenda la si poteva indubbiamente gestire molto meglio.

Anche perché le fiale di Moderna sono più rare di un Gronchi Rosa; Johnson&Johnson un tempo la conoscevamo solo per lo shampoo e ora promette mirabilie con la sua dose unica, ma intanto affloscia anch'essa le promesse delle forniture; Sputnik è visto come una cosaccia postsovietica da cui tenersi alla larga; quelli cinesi peggio che peggio; quello italiano, di Reithera al momento c'è solo l'attesa.

E però a fatica si fa tutti piano piano strada. Si pensa già a pass Covid per le vacanze in giro per l'Europa e a colori un po' più tenui dopo le grigliate di Pasquetta. Si spera in una maggiore efficacia nella conversione dei decreti ristoro contiani in decreti sostegno draghiani, mentre le aziende aspettano e imprenditori e dipendenti occupano le piazze.

Nel suo (mica tanto) piccolo anche la nostra Ars si appallottola nelle solite questioni di mera bottega, pochi spiccioli e tante pretese, con una Finanziaria che si è insabbiata nelle secche degli equilibri d'aula. Con buona pace delle organizzazioni datoriali, dagli industriali agli artigiani, che aspettano invano e snocciolano anatemi.

Tutti vaccinati entro fine estate, promette il pluridecorato generale/commissario erede del flemmatico - e un filo fosco - Arcuri. Speriamo, più che crediamo. E ci va bene anche. Purchè non si debba per forza passare ancora a lungo dalle inumane strettoie di una Ellis Island post contemporanea. A Palermo come altrove.

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