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Chiusure domenicali, quando la legge è solo «contro»

«Fare una legge e non farla rispettare equivale ad autorizzare la cosa che si vuole proibire». Non sappiamo se Richelieu rientri fra i modelli di riferimento dell’attuale governo italiano a trazione pentaleghista. Magari sì, in chiave assolutista e statalista, anche se inconsapevolmente. Noi dal cardinale e primo ministro della Francia del Seicento prendiamo in prestito la citazione per rimbalzarla sui palazzi ministeriali dell’Italia di oggi. Nei quali l’impressione sempre più manifesta è che si cominci a partorire un tessuto normativo-ideologico incentrato sul «contro», sulla limitazione, sulla negazione. Piuttosto che sul «per», sul sostegno, sul supporto.

La legge deve concettualmente normare ambiti e discipline con il prioritario intento di favorirne lo sviluppo e la gestione. Mettendo al riparo da illiceità e devianze chi da quella legge può e deve trarre beneficio. Insomma, per dirla col Richelieu, se una legge non si è in grado farla rispettare, allora si fa il gioco di chi è controlegge.

Ma non è azzerandola o ribaltandone i canoni che si giunge a soluzione. Si autocertificherebbe l’incapacità e dunque la sconfitta del legislatore stesso. A meno che l’intento non sia deliberato o volutamente persecutorio.

Gli esempi prodotti da questo esecutivo cominciano a sommarsi. Il «decreto dignità», discutibile già dal nome, è nato con il dichiarato scopo di tutelare i lavoratori. Cominciando con il combattere il tanto bistrattato precariato, attraverso l’impossibilità di andare oltre un tetto massimo della durata dei contratti. Ma siccome nulla al contempo viene previsto per sostenere adeguatamente le imprese, queste ultime neanche si sognano, in mancanza di prospettive concrete di sviluppo, di trasformare in definitivi i contratti provvisori. Dovendo rinunciare a professionalità già maturate – abbandonate al loro destino in un sorta di limbo senza prospettiva - devono reclutare ulteriore personale a tempo. Risultato: si combatte il precariato, favorendo la nascita di nuovo precariato. L’obiettivo del decreto è colpire storture e illiceità, furbi e furbetti? Basterebbe applicare le norme esistenti, a tutela somma di chi le rispetta, siano essi imprese o lavoratori.

Nella stessa direzione si muove la serrata sulle aperture domenicali dei negozi. Quale che sia la formula adottata (chiusure a rotazione, percentuali di salvaguardia, deroghe turistiche, accordi locali), alla base di questa scelta, a detta del vicepremier Di Maio, ci sarebbero la necessità di tutelare la sacralità – religiosa o laica che sia - delle feste in famiglia e di colpire lo sfruttamento indiscriminato dei lavoratori e dei loro diritti. Detta della sostanziale, se non strumentale, inconsistenza del primo motivo (se dovessimo elencare le figure professionali costrette a lavorare tutte le domeniche e i festivi non basterebbe questa intera pagina), eccoci ancora tornare a quanto teorizzava Richelieu 400 anni fa: le leggi vanno applicate, altrimenti si favorisce solo chi le viola, penalizzando chi le rispetta.

Le aperture domenicali illimitate dei negozi sono una facoltà concessa alle aziende, non un obbligo. Una possibilità concessa a chi insomma sul mercato vive e dal mercato trae la propria ragion d’essere. Un obbligo è invece il rispetto dei contratti e l’azione persecutoria in caso contrario. Dire che la limitazione alle aperture serve contro la troppa deregulation e i troppi affaristi senza scrupoli, equivale ad ammettere che non si è in grado di far rispettare norme già esistenti. Per non parlare poi dell’ulteriore beffa nei confronti dei lavoratori: se il decreto dignità li «tutela», aggiungendo precari a precari, la serrata domenicale delle botteghe e degli ipermercati li lascia con un giorno lavorativo in meno a disposizione. Domanda: in virtù di questo, le aziende che rispettano le regole assumeranno o piuttosto licenzieranno?

In questa logica di retroguardia - su cui confidiamo si possa ancora tornare a riflettere senza troppi irrigidimenti - può rientrare anche il caso Autostrade, seguito alla tragedia di Genova. Ribadita l’assoluta e pericolosa inopportunità di sostituirsi alla giustizia nell’identificare più o meno sommariamente colpe e colpevoli a inchiesta penale ancora ai primi passi, lascia a dir poco perplessi il pretesto per riesumare le nazionalizzazioni. Dietro cui si nasconde l’incapacità di mettere in atto un chiaro ed efficace sistema di controlli (e il tal senso attendiamo più che mai l’esito dell’inchiesta della Procura genovese).

Uno Stato che non favorisce il sistema delle imprese, ma vuole sostituirsi ad esse (con risultati che la storia ha peraltro bollato come spesso disastrosi), è uno Stato che ha una visione corta. E lo raccontano i numeri, non i nemici: a giugno e luglio si sono persi 90 mila posti di lavoro a tempo indeterminato (fonte Istat), con un calo costante negli ultimi tre mesi che non accadeva dal 2014; a maggio le ore di cassa integrazione autorizzate erano 50 mila in meno rispetto al maggio 2017, a luglio erano diventate 878 mila in più rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (fonte Inps). L’economia ristagna, mentre il sistema di pagamenti della Banca centrale europea segna per l’Italia un rosso di 45 miliardi di euro fra maggio e luglio, a dimostrazione che un’ampia fetta di capitali varca i confini.

Il tutto mentre Di Maio trova anche il tempo per dire che le società pubbliche dovrebbero smettere di fare pubblicità sui giornali, per farseli amici. E se fosse vero il contrario? Se le società pubbliche stanno smettendo di fare pubblicità sui giornali perchè questi sono liberi e tutt’altro che ricattabili o asservibili? Del resto, anche in questo caso ci sono leggi a sufficienza per stanare corrotti e corruttori. Basta saperle applicare. E non solo perché lo teorizzava quel furbacchione di Richelieu alla corte di Re Luigi. Di Francia, non Di Maio.

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