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Rifiuti e acqua in Sicilia, inefficientismo storico per tirare a campare

Marco Romano

I rifiuti e l’acqua. Cosa esiste di più iconografico per rappresentare l’inefficientismo della cosa pubblica in termini di servizi primari per la collettività? E dunque cosa più di rifiuti e acqua può oggi scorrere nella colonnina di mercurio del termometro dell’affidabilità e della capacità di chi governa nel dare risposte concrete ai fabbisogni essenziali delle famiglie? Se così fosse – anzi, siccome così è – la Sicilia si trova nel pieno di una di quelle stagioni che si ritenevano consegnate a un passato di tormenti e incapacità, in un mix indistinto di dolo e colpa che evidentemente nulla ha insegnato ai posteri. Se non il solito annoso infruttuoso sguazzare nelle logiche dell’emergenza, quasi sempre funzionali agli interessi di pochi più che alle soluzioni per tutti. Perché i rifiuti salgono, l’acqua scende e si sta andando incontro all’ineluttabile disastro di soluzioni vecchie tanto quanto i rispettivi problemi.

Così nel 2018 si demonizzano ancora i termovalorizzatori, col neopresidente della Regione Nello Musumeci aggiuntosi al folto coro dei detrattori e la sovrintendenza di Messina che bolla come incompatibile col paesaggio l’impianto già autorizzato a suo tempo dallo Stato a San Filippo del Mela. Il primo torna a invocare proroghe per le discariche, la seconda cede alle lusinghe di un malinteso ambientalismo. In Sicilia. Dove vivono 5 milioni e spiccioli di persone in un territorio dieci volte più piccolo della Danimarca, che ha però più o meno lo stesso numero di abitanti. Solo che lassù l’ultima discarica l’hanno mandata in pensione 40 anni fa, sui tetti dei termovalorizzatori si scia in inverno e si pattina in estate, con ciascuno degli oltre 30 impianti disseminati fra Jutland e isole varie capace di riscaldare 150 mila case e garantire energia elettrica a 60 mila utenti.

Bella forza, direte. Quella è la Scandinavia, anni avanti, altre teste, altra civiltà. Ok, allora ridiscendiamo l’Europa, magari facciamo una breve tappa a Vienna (l’inceneritore di Spittelau, pieno centro città, festeggia quest’anno i suoi 47 anni di onorata attività, ingoia 260 mila tonnellate di rifiuti l’anno e fornisce calore a 60 mila case) e scivoliamo fino al di qua degli italici confini, da Brescia fin giù ad Acerra, panacea della Terra dei Fuochi (ma non ditelo alle cieche orde di fanatici ambientalisti a tutti i costi).

In Sicilia, invece, i termovalorizzatori no. Non sia mai. Noi puntiamo sulla differenziata. E adesso prepareremo dieci piattaforme di raccolta, puniremo gli indolenti e distribuiremo nuovi contenitori colorati. E così la differenziata, che oggi stenta a raggiungere il 15% (e a Palermo non ci si avvicina neanche), in un puff salirà al 65% necessario. Facile, no? Nel frattempo mandiamo in discarica l’85% dei nostri torsoli quotidiani, contro il 4% di Lombardia o Friuli, teniamo in vita 27 Ato e 18 Ssr (acronimi mangiasoldi e null’altro), bruciamo – in questo caso sì, senza remore – un miliardo di euro all’anno, ci facciamo sbeffeggiare da Bruxelles e ci presentiamo in brache rattoppate a Roma, chiedendo pieni poteri. Per ampliare Bellolampo e stivare immondizia nei camion da spedire all’estero.

Rischiamo di passare dalla «terra del sole» alla «terra che brucia», teorizza Musumeci davanti agli sbadigli d’aula dell’Ars. Il problema è però che quest’estate non avremo più neanche l’acqua per spegnerli, gli incendi appiccati ai cumuli di munnizza agli angoli delle strade. Già, l’acqua. L’altra iconografia dell’inefficientismo tutto siculo. Su cui poggia quel sottile velo di polvere dell’alibi siccità, che si spazza via con un semplice sbuffo. Perché è vero che gli invasi si svuotano, ma la morigeratezza di Giove Pluvio è colpa ben inferiore di quelle terrene, se poi 100 milioni di metri cubi dallo Scillato in otto anni sono finiti dritti dritti in mare per una falla che nessuno tura, se il 46% delle forniture si perde nelle reti colabrodo e se questo dato sfonda il muro del 60% al lordo di furti e allacci abusivi. E che si fa? Semplice: si invoca lo stato di calamità, si requisisce qualche pozzo privato, ci si spertica in accorati appelli per ridurre i gargarismi al mattino e si organizzano danze della pioggia. Nel frattempo lasciamo morire le coltivazioni di 110 mila aziende e siccome i silos che negli anni Ottanta e Novanta decoravano le strade sono ormai andati al macero, riesumiamo i bidoni e mandiamo a memoria i turni di razionamento. E pazienza se poi paghiamo, tutti insieme, bollette per 700 milioni all’anno.

Certo, i guasti delle privatizzazioni, urlano gli ortodossi della Cosa pubblica. Quella che invece le soluzioni le ha, eccome: pieni poteri, commissari, stati di emergenza, stati di calamità. E così possiamo tirare a campare...

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