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La Sicilia grande produttrice di vino, ma non riesce a esportarlo

L’Isola è la terza regione italiana per la produzione, la prima nel settore bio. Ma si intesta appena il 2% dell’export nazionale

L’Italia ha esportato lo scorso anno vini per oltre cinque miliardi di euro; la Sicilia per 99 milioni. Il Veneto, primo per valore delle esportazioni, ha collocato all'estero vini per 1,6 miliardi di euro; lo rileva Nomisma con il suo tradizionale sondaggio sul mercato dei vini italiani, Wine Monitor.
La Sicilia è la terza regione italiana per la produzione di vini e di mosti; è la prima regione per vini imbottigliati di qualità (IGT); è la prima regione per la produzione biologica di uve e vini. Ma si intesta appena il 2% dell'export italiano. «Forse un po' poco - dicono gli esperti di Nomisma - alla luce delle rilevanti potenzialità che la vitivinicoltura siciliana esprime e soprattutto della notorietà che questo territorio detiene nella percezione dei distributori e dei consumatori di tutto il mondo». È quanto emerge dai risultati della Wine Trend World, un sondaggio tra gli operatori internazionali che misura, tra le altre cose, la conoscenza del marchio dei diversi territori vinicoli europei. L'indagine ha messo in luce le principali zone di produzione di vini di successo: ben 6 regioni sono italiane. Tra queste primeggia ancora una volta il Veneto - che sembra aver ormai conquistato una sorta di leadership nel panorama dell'export enologico internazionale - seguito nell'ordine da Toscana, Sicilia, Piemonte, Alto Adige e Puglia.
In definitiva, la produzione vinicola siciliana risponde a cinque precisi parametri: elevati livelli di produzione, prodotti di grande qualità, forte incidenza delle coltivazioni biologiche, diffusa percezione del brand ma bassissimo livello di vendite all'estero. È la solita storia: una regione con produzioni agricole di altissima qualità, e non solo vini, che pure non riesce a "bucare" i mercati per la intrinseca fragilità commerciale, aggravata da un sistema di infrastrutture del tutto inadeguato.
Ora per la Sicilia si schiude una straordinaria opportunità; la produzione biologica, ovvero la nuova frontiera di un consumo di qualità e capace di premiare il prezzo. Nomisma definisce il mercato del vino biologico «in grande fermento», specie dopo l'approvazione, circa un anno e mezzo fa, del nuovo regolamento comunitario. Qualche numero, meglio di tante parole, può fornire uno spaccato di questo mercato. L'Italia ha l'8% della superficie vitata con coltura biologica; si tratta di un valore doppio rispetto alla media mondiale, che risulta appunto del 4%. In complesso l'Italia ha 57 mila ettari vitati bio, aumentati sensibilmente negli ultimi anni (+81% rispetto al 2003). Nel panorama nazionale la Sicilia, con i suoi 16 mila ettari vitati bio, risulta di gran lunga la prima regione italiana (la Puglia segue con dieci mila ettari) e rappresenta da sola il 28% dell'intera produzione viticola biologica del nostro Paese; un dato questo che fa apparire ancora più stridente la limitatissima presenza dei vini siciliani sui mercati mondiali che, come si è detto, arriva a stento al 2% dell'export nazionale.
Insomma le premesse ci sono tutte; ma viene da chiedersi, il vino biologico ha una prospettiva di mercato apprezzabile? La risposta, secondo Nomisma, è affermativa e, per i volumi in gioco, addirittura sorprendente. Il sondaggio Nomisma ha fatto emergere, infatti, che nel 2013 quasi «il 12% degli italiani ha consumato vino bio almeno in un'occasione»; la crescita è impressionante giacchè nel 2012 il dato era risultato appena il 2%. Circa la metà dei consumatori italiani di vini bio ha acquistato una bottiglia nei negozi, mentre un'altra metà lo ha consumato in ristoranti ed enoteche. È di grande interesse prospettico per i produttori che il 43% dei consumatori italiani di vino, bio e non, attribuisca al biologico «qualità superiori rispetto agli altri vini».
La partita ora si sposta sul piano commerciale, sulla comunicazione, sulla grande distribuzione e sui negozi specializzati; lo conferma un dato di sicuro rilievo. L'88% dei «non consumatori bio» si dichiara «disposto ad acquistare vini bio qualora le referenze fossero presenti nei punti vendita da loro frequentati».
Anche sull'estero le prospettive sono interessanti; del resto il vino è il prodotto agroalimentare italiano più esportato nel mondo (come abbiamo detto per cinque miliardi di euro nel solo 2013) e quello biologico non ha mancato di dare il proprio contributo. Basti considerare che il nostro principale mercato di sbocco, gli Stati Uniti, ha assorbito lo scorso anno vini italiani per poco più di un miliardo di euro; gli USA hanno comprato anche vini biologici per circa 200 milioni, per il 30% provenienti dall'Italia. In questo immenso mercato la Sicilia si affaccia timidamente - lo abbiamo già detto - con alti livelli produttivi, prodotti di grande qualità, forte incidenza delle coltivazioni biologiche, conoscenza ed apprezzamento del brand ma anche con un bassissimo livello di esportazioni.
Le mosse da fare non sarebbero neanche difficili: Una spinta importante dovrebbe arrivare grazie al marchio di denominazione di origine; «il riferimento - come scriveva qualche giorno fa su questo giornale Fabrizio Carrera - è al consorzio della DOC Sicilia, uno tra i più grandi d'Italia per numero di soci ed ettari vitati, che tra qualche mese potrà entrare a pieno titolo nella gestione del vino e nella sua promozione».
Ma certo si avverte molto la mancanza di un porto internazionale, dotato di infrastrutture idonee a velocizzare e semplificare l'export dei nostri prodotti agricoli. Siamo un'Isola, siamo al centro del Mediterraneo, collocata sulle principali rotte navali, abbiamo mille chilometri di coste e neppure un porto di caratura internazionale, con adeguate infrastrutture e sufficienti spazi di retro banchina. Non è quindi un caso se il cabotaggio internazionale ignora completamente i porti siciliani. Basti pensare che i nostri esportatoti devono raggiungere su gommato Gioia Tauro per trovare servizi navali di trasporto all'estero. E così restiamo lontani tanto dai mercati del centro e nord Europa quanto dai Paesi rivieraschi del Mediterraneo; per raggiungere il Libano o la Tunisia bisogna andare prima a Livorno o a Genova. In sede di programmazione dei fondi europei questo sarebbe davvero un bel tema da attenzionare.

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