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La scommessa: rinnovare la Chiesa aprendola al mondo

A un anno dall’elezione di Papa Francesco alla cattedra di Pietro, un bilancio si impone. E un primo capitolo può essere costituito dall’impatto che le parole e lo stile del nuovo Pontefice hanno avuto sull’opinione pubblica. Sui credenti, in primo luogo. Da un sondaggio fatto dai settimanali cattolici Credere e Famiglia cristiana, risulta che per 7 lettori su 10 i discorsi e i gesti di Francesco hanno determinato un cambiamento nella loro vita.
Il 58% dice di aver «riscoperto la fede come gioia e non come dovere»; il 27% adotta «stili di vita più sobri»; il 22% constata di «voler più bene agli altri».
Ma anche - e forse soprattutto - sui non credenti. Il nuovo papa ha cambiato l’immagine che essi avevano della Chiesa. In una società dominata da una forte mentalità laicista e dove l’istituzione ecclesiastica era guardata da moltissima gente con profonda diffidenza, se non addirittura con antipatia, l’intelligente richiamo alla prospettiva evangelica, contenuto nell’approccio di Francesco ai problemi, ha fatto apparire in una nuova luce quella che era fino a ieri vista come lo sclerotico baluardo della conservazione. Si è ricominciato a vedere in essa ciò che, in linea di principio, è sempre stato il suo vero significato: un possibile tramite fra la vita delle persone e Gesù Cristo. Nessun pontefice dell’età moderna e contemporanea, forse, ha goduto di tanta popolarità. Neppure Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - due papi che, per motivi diversi, hanno avuto un rapporto particolarmente intenso ed estremamente positivo con la gente e riscosso molti consensi anche da parte degli osservatori più distaccati - hanno cambiato la vita reale delle persone e il loro approccio alla Chiesa in misura paragonabile a quanto ha fatto papa Francesco in un solo anno di pontificato.
Meno ricco, ma non insignificante, il quadro delle novità strettamente istituzionali. Un passo importante per dare contenuto al principio della collegialità, rimasto finora soprattutto uno slogan, è stata l’istituzione di una commissione di otto cardinali che il papa ha voluto perché lo affiancasse e lo consigliasse nelle scelte di governo della Chiesa. Una serie di altre misure molto significative ha riguardato il settore più discusso della istituzione ecclesiastica, quello riguardante le finanze vaticane. La creazione di una Segreteria per l’economia guidata dal cardinale Pell, australiano (uno degli otto cardinali della commissione) e, a suo supporto, di un Consiglio dell'economia, formato da ecclesiastici e da esperti laici, incaricato di determinarne politiche e direttive, va decisamente nella direzione di una sostanziale riforma di questo settore, riportandolo sotto il pieno controllo del papa e sottraendolo al rischio, finora fortissimo, di una autoreferenzialità puramente «mondana».
Ma la voce più importante, forse, del nostro bilancio è quella che riguarda l'impostazione pastorale data dal nuovo pontefice. Su questo punto ha giocato sicuramente, più che per gli altri due aspetti, la sua provenienza da un ambiente geografico e culturale molto lontano rispetto alla tradizionale collocazione della Chiesa. Figlio delle periferie del mondo, Francesco ha messo per la prima volta all’ordine del giorno, a un’istituzione spesso centrata su di sé, l’esigenza di uscire verso queste periferie, per condividerne le povertà materiali e spirituali, le inquietudini, i fermenti.
Questo «esodo», nelle chiare intenzioni del papa, non riguarda solo il rapporto tra la Chiesa e il mondo, ma la stessa vita ecclesiale, a tutti i livelli. Francesco si è impegnato a fondo, come nessun altro pontefice, a cambiare la mentalità interna della Curia, gli stili di vita dei cardinali, dei vescovi, dei preti, prima ancora che dei laici, per adeguarli a una prospettiva evangelica per farli uscire dalle logiche di potere, di carriera, di conflittualità interna. Anche nella Chiesa c’è il rischio concreto di una casta che difende i propri privilegi e interessi, invece di avventurarsi coraggiosamente sulle strade del mondo per annunciare Cristo. Questa consapevolezza è evidente sullo sfondo di tanti discorsi, di tante esortazioni, di tante velate critiche di Francesco proprio agli ambienti ecclesiastici.
Lo spostamento deciso dell’asse della vita ecclesiale ha avuto conseguenze importanti anche sul piano delle scelte di priorità. Alla rivendicazione dei «valori non negoziabili», frutto di un’ottica che dava la precedenza alla difesa nei confronti della cultura laicista, è subentrata l’insistenza sui poveri e sulla lotta alle ingiustizie, che comporta piuttosto un atteggiamento «offensivo» nei confronti del mondo opulento ed egoista dell’area capitalistica. Le due prospettive non sono in contrasto, come lo stesso Francesco ha più volte sottolineato. Ma ora, invece di parlare soprattutto della sacralità della vita nel momento del suo inizio e della sua fine (aborto, eutanasia), la si valorizza in tutto l’arco del suo svolgimento (che peraltro include anche i due punti estremi).
Una cosa è certa: la battaglia del nuovo papa, a giudicare dalle opposizioni sempre più frequenti e aggressive che sta già suscitando, soprattutto all’interno della stessa Chiesa, non è solo una questione di facciata o di ricerca della popolarità (come cercano di far credere i suoi critici). Ma potrà riuscire solo se Francesco non resterà solo. Forse la sola nota negativa del bilancio che abbiamo tracciato è che, in fondo, ancora - malgrado gli sforzi che il nuovo pontefice ha fatto e sta facendo per sollecitare da parte di tutti un’assunzione di responsabilità - , prevale ancora in molti la logica della delega, per cui la Chiesa si identifica, alla fine, col suo vertice. Questo è il vero pericolo. È il momento di rendersi conto che chi vuole davvero una Chiesa diversa non può limitarsi a fare il tifo per il nuovo papa, ma deve contribuire di persona a questo rinnovamento.

 

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