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Il Papa e quella naturalezza nel sentirsi sempre «uno di noi»

Poche volte, nella storia del cristianesimo, la personalità di un capo della Chiesa cattolica aveva riscosso, a livello mediatico, un successo paragonabile a quello di papa Francesco. Certamente qualche altro caso - si pensi, per fare solo l'esempio più recente, a Giovanni Paolo II - si potrebbe menzionare. Quello che però è del tutto nuovo, incommensurabile rispetto ai precedenti pontificati, è lo stile che ha consentito a questo papa di avere una immensa popolarità. Gli altri l'hanno ottenuta sempre rivestendo i panni caratteristici di un ruolo, quello di vicario di Cristo sulla terra, che la tradizione aveva caricato di una sacralità trascendente. Lo stesso Giovanni XXIII, l'indimenticabile «papa buono», la cui bonomia paterna coesisteva però con l'uso del plurale maiestatis (il primo ad abolirlo fu papa Luciani) e con il mantenimento dell'apparato esteriore tradizionale, poteva apparire pur sempre una personalità di un piano superiore che desidera chinarsi dall'alto sulla gente, per mettersi al suo livello.
Francesco no. Fin dall'inizio, da quel «Fratelli e sorelle, buonasera!», egli non ha avuto bisogno di diventare uno di noi: lo è stato. Con la massima naturalezza ha gestito la sua sacra dignità nel modo più semplice, oseremmo dire «più profano», mettendosi sempre sullo stesso piano dei tanti uomini e donne che si sono stretti intorno a lui, rispondendo puntualmente alle loro lettere, talvolta prendendo addirittura l'iniziativa di cercarli per telefono per parlare dei loro problemi.
Anche sul piano dottrinale il suo atteggiamento è stato estremamente libero. Non ha rinunziato a ribadire, ogni volta che se ne è presentata l'occasione, la novità e l'incompatibilità della prospettiva evangelica rispetto a un mondo dominato dalle logiche del profitto e del consumo sfrenato, ma lo ha fatto senza mai assumere un tono di apocalittica condanna. Ha rivendicato senza reticenze né omissioni il patrimonio della tradizione ecclesiale, ma ha saputo presentarlo come una proposta moderna e attuale per tutti, credenti e non credenti, intavolando un dialogo cordiale con un «guru» del pensiero laicista come Eugenio Scalfari e riuscendo a farsi leggere su un quotidiano da sempre molto lontano dalla Chiesa come «la Repubblica». Ha insistito soprattutto sul tema della misericordia che Dio ha nei nostri confronti e che noi dobbiamo, sul suo esempio, gli uni agli altri, aprendo le porte a tanti che si sentivano giudicati ed esclusi dalla comunità ecclesiale.
C'è chi è rimasto disorientato e preoccupato da questo stile inedito. Si è accusato papa Francesco di non dare il senso della sacralità della sua carica. Ma Gesù è venuto proprio per abolire il dualismo tra il sacro e ciò che sembra non esserlo. Egli ha nascosto - e al tempo stesso rivelato - la sua divinità nell'oscuro sacramento dei gesti quotidiani, al punto che i suoi concittadini di Nazareth hanno stentato più di tutti ad accettare che egli fosse il Messia atteso.
Al pontefice si è rimproverato di non parlare spesso come i suoi predecessori dei cosiddetti «valori non negoziabili». Eppure ne ha parlato, solo che lo ha fatto in un contesto che ha reso molto più comprensibile alla gente che quella della Chiesa non è una resistenza moralistica al pieno esercizio della libertà personale, ma il richiamo a una costellazione di principi - inclusivo della giustizia, del rispetto dei più deboli, della fraternità, della misericordia - , dimenticando il quale l'uomo distrugge la propria umanità.
Lo si è accusato di lasciarsi strumentalizzare, con la sua disponibilità al dialogo, da chi tende a travisare le sue parole di apertura. Ma anche le parole di condanna possono essere strumentalizzate. Forse si dimentica che veniamo da una stagione in cui, proprio sulla base dei «valori non negoziabili», il messaggio della Chiesa è stato sistematicamente usato dagli «atei devoti» per convogliare i voti dei cattolici verso una parte politica.
Si è avanzato il dubbio che, dietro questa profonda novità di linguaggio e di comportamento, non vi sia la capacità di realizzare un reale rinnovamento delle strutture della Chiesa. Eppure Francesco ha già fatto dei passi avanti importanti nella direzione della collegialità, con la nomina di una commissione di cardinali che lo affianchi, e in quella di una maggiore trasparenza dell'amministrazione ecclesiastica, con alcune importanti riforme della finanza vaticana.
Soprattutto, però, è innovatore il modello di Chiesa che egli presenta. Da molti anni si registrava un progressivo allontanamento dalla comunità ecclesiale di intellettuali e giovani, che oggi hanno ricominciato a guardare ad essa con simpatia e interesse. Ma questo non dipende solo da un'abilità comunicativa del papa, bensì dal fatto che egli ha testimoniato con la sua persona che tra l'istituzione ecclesiastica e Cristo non c'è l'abisso che molti credevano e che veramente la prima, con i suoi limiti e i suoi problemi, può ancora costituire il luogo dove incontrare il secondo. Da questo punto di vista il vero successo di Francesco non è tanto di essere stato designato da «Time» come «uomo dell'anno», non è di essere simpatico a (quasi) tutti, né di essere osannato dalle folle che si riuniscono in piazza San Pietro, ma di avere di nuovo aperto il cuore degli uomini e delle donne di oggi, spesso stanchi e feriti, alla speranza che Gesù possa davvero salvarli.

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