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Slogan o impegno? Motivi giusti, metodo sbagliato: e la scuola affonda

Una classe di 25 ragazzi «bloccata» costa mille euro al giorno: sono soldi bruciati dei finanziamenti

Si discute se Palermo sia la seconda o la prima città d'Italia per numero di scuole occupate, in ballottaggio con Roma e seguita da Napoli. Quale che sia la risposta, è significativo che, al Nord, il fenomeno sia stato molto più limitato. Per la cronaca, secondo il recente rapporto Ocse il Sud è anche l'area del Paese dove, a prescindere dalle occupazioni, è più alto il numero delle assenze e più basso il rendimento scolastico.

Un quadro coerente di sottosviluppo economico e sociale, ma anche culturale. Si dirà che, proprio per questo, la protesta giovanile è più sviluppata nel Meridione. Sarebbe uno spiraglio di speranza, se non fosse che le modalità di questa protesta la collocano più nella serie di quegli sterili moti populisti, da cui periodicamente è stata segnata la storia del Sud-Italia, che non in quella dei movimenti autenticamente innovatori fioriti altrove. Perciò, come quei moti, essa finisce per consolidare, invece di scuotere, i meccanismi perversi che vorrebbe combattere.

Prendiamo in considerazione uno dei principali obiettivi della contestazione studentesca di questi giorni, la difesa della scuola pubblica. Gli studenti hanno pienamente ragione, quando affermano che nel nostro Paese essa è stata oggetto di un progressivo declassamento. Edifici fatiscenti, laboratori e palestre spesso inesistenti. Per non parlare dei servizi: trasporti, libri di testo gratuiti, etc. La stessa professione docente è stata sempre più squalificata, demotivando gli insegnanti e scoraggiando i giovani più qualificati dall'intraprendere questa carriera. Contro questo vale sì la pena di reagire.

Ma come? Bloccando le scuole e - in molti casi - danneggiandone più o meno gravemente le già carenti attrezzature? Umiliando ulteriormente i professori, costretti a chiedere ai propri alunni il permesso di svolgere il proprio lavoro e, in molti casi, perfino di entrare nei propri istituti? Vanificando le somme - insufficienti, ma comunque notevoli - che lo Stato investe per far funzionare il sistema di istruzione?

Quest'ultimo punto merita una breve esplicitazione. Spesso i ragazzi pensano il proprio ruolo come analogo a quello dei lavoratori. È un'illusione ottica. Essi sono i fruitori di un lavoro svolto da altri (docenti, personale Ata, dirigenti), che, con le occupazioni, viene paralizzato a danno loro e di tutta la comunità civile che su di essi punta. L'Associazione nazionale presidi (Anp) ha calcolato gli sprechi spaventosi di denaro pubblico che, al netto dei danneggiamenti, le sospensioni delle lezioni producono, in termini di stipendi dei docenti e del personale scolastico: «Uno studente costa allo Stato circa 8 mila euro l'anno, cioè 40 euro al giorno di lezione. Una classe di 25 studenti ne costa mille. Il fermo di una scuola di 30 classi ne costa 30 mila, sempre al giorno». Insomma, osserva l'Anp, in due giorni di sospensione delle lezioni, «una scuola di medie dimensioni ha bruciato l'equivalente di quanto riceve in un anno di finanziamenti».

«Ma sono ragazzi!», si sente spesso dire, come se ciò rendesse a priori sproporzionati alla realtà questi rilievi critici. Penso che gli studenti debbano decidere: sono bambini che giocano a fare i grandi, grandi che giocano a fare i bambini, o persone ormai abbastanza mature da dover rispondere delle loro scelte? La linea seguita in tutti questi anni dalle pubbliche autorità e da molti adulti privilegia, con sorridente (e offensivo) paternalismo, la prima ipotesi. Quella caldeggiata da chi invoca una severa repressione, la seconda. Per quanto mi riguarda, ritengo che la sola adeguata sia la terza, purché anche i ragazzi la sposino.

Se lo facessero, però, dovrebbero dare ai gravissimi problemi, di cui giustamente avvertono il peso, una risposta - in termini di informazione, di consapevolezza, di impegno attivo - che valorizzi la scuola, invece di contribuire a distruggerla. Si tratta di mettere a frutto le notevoli potenzialità di partecipazione insite nel nostro ordinamento scolastico (a cominciare dalle assemblee di classe e di istituto), invece di violentarle con episodiche esplosioni di rabbia, lasciandole inutilizzate per tutto il resto dell'anno. In questo modo la scuola potrebbe svolgere la sua strutturale funzione politica (non partitica!), contribuendo a formare dei futuri cittadini per una nuova classe dirigente, di cui - soprattutto al Sud e in Sicilia - c'è un disperato bisogno.
Invece di rivendicare il collegamento con la vita reale sospendendo il normale corso del lavoro scolastico, si dovrebbe allora realizzarlo proprio a partire dalle sollecitazioni culturali che esso offre quotidianamente. Anche durante lo svolgimento delle lezioni dovrebbe essere possibile parlare di attualità e di politica. L'educazione civica, anche se non è più considerata una materia, rimane lo sfondo entro cui le singole discipline dovrebbero essere contestualizzate, per incidere sulla vita delle persone e su quella del territorio.

Ciò, naturalmente, comporterebbe la collaborazione dei docenti. Ce ne sono molti disposti a darla, purché ciò avvenga in un clima di reciproco rispetto e in un contesto che non ponga la riflessione sull'attualità come un'alternativa, bensì come il compimento di un serio impegno nell'acquisizione dei saperi.

Tutto questo è molto più impegnativo che gridare slogan. Richiede da parte di tutti uno sforzo per la riqualificazione della nostra scuola, invece di pretenderla come una concessione dall'alto. Soprattutto richiede, da parte dei giovani, un atto di onestà intellettuale, che non ceda alla deriva delle mode. E già questo sarebbe, in questa nostra società, un atto rivoluzionario.

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